Sì, il comportamento del proprietario di un gatto o di un cane, che, nonostante le ripetute lamentele, lascia incustodito l'animale tanto da recare molestia agli altri condomini, è riconducibile a stalking.
Il piacere della compagnia di un animale domestico, cane o gatto che sia, è impagabile. Ma c'è un aspetto da tenere conto, oltre alla cura di cui i nostri amici a quattro zampe hanno bisogno: l'indispensabilità del rispetto delle regole all'interno di un condominio.
Detto in altri termini, il diritto di ospitare all'interno della propria abitazione un cane o un gatto termina laddove si intaccano i diritti altrui. Le accuse a cui i padroni vanno potenzialmente incontro sono infatti piuttosto gravi ovvero stalking e molestie e dunque atti persecutori. Approfondiamo meglio:
Stalking e molestie: possono provocarli anche cani e gatti di un vicino o no
Normativa in vigore sugli atti persecutori: cosa rischiano i padroni
Con la diffusione di cani e gatti all'interno delle abitazioni in condominio era pressoché inevitabile la crescita di polemiche e diatribe tra proprietari e vicini di casa. Più volte i giudici sono stati chiamati a dirimere controversie e i risultati sono stati estremamente chiari.
Da una parte, il comportamento del proprietario di un gatto, che, nonostante le ripetute lamentele, lascia incustodito l'animale tanto da recare molestia agli altri condomini, è riconducibile a stalking. Dall'altro è considerato stalking diretto far circolare il cane all'interno degli spazi comuni del condominio, se finalizzato - come nel caso di specie su cui sono stati chiamati in causa i giudici - a spaventare le bambine di una coppia di coniugi, solo per costringerli a cambiare casa
Più volte la Cassazione è intervenuta sulla materia. Ricordiamo ad esempio quando ha messo nero su bianco che, in tema di atti persecutori, l'evento, consistente nell'alterazione delle abitudini di vita o nel grave stato di ansia o paura indotto nella persona offesa, deve essere il risultato della condotta illecita valutata nel suo complesso, nell'ambito della quale possono assumere rilievo anche comportamenti solo indirettamente rivolti contro la persona offesa.
Oppure che - sempre a detta dei giudici della Suprema Corte - ai fini dell'individuazione del cambiamento delle abitudini di vita, che costituisce uno dei tre possibili eventi alternativi contemplati dalla fattispecie criminosa, occorre considerare il significato e le conseguenze emotive della costrizione sulle abitudini di vita cui la vittima sente di essere costretta e non la valutazione, puramente quantitativa, delle variazioni apportate.
Disposizioni alla mano, salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da 1 anno a 6 anni e 6 mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
Dopodiché, stando alla medesima normativa, la pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici. Quindi la pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità ovvero con armi o da persona travisata.
Infine, il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di 6 mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate. Si procede tuttavia d'ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio.