Troppi incassi in contanti ovvero pochi documenti fiscali lasciano immaginare la presenza di fonti di guadagno sconosciute al fisco. Per l'Agenzia delle entrate significa non essere più legati alle risultanze della contabilità per ricostruire l'importo dei ricavi imponibili, ma procedere senza vincoli e impedimenti. Un caso è finito all'attenzione della Corte di Cassazione.
Verrebbe da dire che a comportarsi con correttezza non si sbaglia mai perché cercare di evadere il fisco con mezzi più o meno fantasiosi non è affatto così semplice.
Anzi, come nel caso del negoziante che incassa la maggior parte dei ricavi per contanti, tale da far risultare un'anomalia tra il reddito dichiarato e l'economicità dell'impresa, ecco che rischia grosso.
Le attenzioni dell'Agenzia delle entrate sarebbero tali da far scattare l'accertamento fiscale di tipo induttivo. Come vedremo in questo articolo, questa circostanza è disciplinata dalle disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi ovvero dal decreto del Presidente della Repubblica numero 600 del 1973.
In termini pratici significa che gli uomini delle Entrate non sono più legati alle risultanze della contabilità per ricostruire l'importo dei ricavi imponibili, ma possono procedere senza vincoli e impedimenti. Approfondiamo la questione e quindi
La posizione dell'Agenzia delle entrate sui controlli si è notevolmente rafforzata in seguito a una ordinanza della Corte di Cassazione che ha accolto le tesi del fisco con la conseguenze condanna del contribuente.
Alla base del contenzioso c'erano i troppi incassi in contanti e l'emissione di fatture generiche nella descrizione di beni e prodotti oggetto della transazione. Numeri alla mano e grazie all'applicazione degli Indici sintetici di affidabilità (Isa ovvero gli ex studi di settore) sono saltate fuori le incongruenze contabili dell'esercente.
Secondo i togati, il reddito familiare dei soci era talmente esiguo da non raggiungere il livello della sopravvivenza e dalla documentazione prodotta dai ricorrenti si evinceva che metà dei ricavi dichiarati era riconducibile a pagamenti in contanti corrispondenti a fatture generiche e poco credibili.
In buona sostanza risultava che l'attività svolta era antieconomica e perdurante nel tempo. Impossibile, secondo l'Agenzia delle entrate prima, dei giudici tributari dopo e della Corte di Cassazione in conclusione, trovare una giustificazione razionale a questa scelta se non la presenza di fonti di guadagno sconosciute al fisco.
Anche perché, nel caso che è finito sotto la lente di ingrandimento della giustizia, di mezzo non c'è stato un piccolo esercizio commerciale alle prese con pagamenti di modesto importo e quindi effettuati per la quasi totalità in contanti.
In base alla normativa in vigore, per i redditi d'impresa delle persone fisiche si procede alla rettifica se gli elementi indicati nella dichiarazione non corrispondono a quelli del bilancio, del conto dei profitti e delle perdite e dell'eventuale prospetto.
Ma anche se non sono state applicate le disposizioni del testo unico delle imposte sui redditi. Così come se l'incompletezza, la falsità o l'inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione risulta in modo certo e diretto dai verbali e dai questionari, da atti, documenti e registri esibiti o trasmessi, dalle dichiarazioni di altri soggetti, dai verbali relativi a ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti o da altri atti e documenti in possesso del fisco.
Oppure - quarto e ultimo caso disciplinato dalle disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi ovvero dal decreto del Presidente della Repubblica numero 600 del 1973 - se l'incompletezza, la falsità o l'inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione risulta dall'ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla base delle fatture e degli altri atti e documenti relativi all'impresa così come dei dati e delle notizie raccolti.
L'esistenza di attività non dichiarate o la inesistenza di passività dichiarate - viene fatto ancora presente - è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici purché siano gravi, precise e concordanti.