Non conta che la pausa caffè sia consumata all'esterno del luogo del lavoro, pubblico o privato che sia. A fare la differenza sono piuttosto la durata e la frequenza della sospensione dell'attività lavorativa.
In un'epoca di furbetti in cui un numero imprecisato di lavoratori esce impunemente dall'ufficio per concedersi lunghe soste, era inevitabile che la questione della pausa caffè finisse di nuovo all'attenzione dei giudici. Il recentissimo caso che prendiamo in esame riguarda proprio due dipendenti pubblici, esattamente comunali. La vicenda è approdata fino all'ultimo grado di giudizio ovvero la Corte di Cassazione.
Anticipiamo subito che i due lavoratori - uno dei quali si era difeso spiegando che la pausa caffè all'esterno era necessaria per via della mancata disponibilità di un distributore di caffè all'interno del Comune - sono stati scagionati. Tuttavia l'aspetto che ci interessa approfondire è il principio sulla pausa caffè stabilito dai giudici della Cassazione. Vediamo quindi;
Secondo i tribunali dei tre gradi di giudizi, i motivi abietti o futili giustificano sempre l'applicazione di un provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore. Anche perché un comportamento di questo tipo è destinato - argomentano i togati - ad aumentare un diffuso malumore verso la categoria dei pubblici dipendenti e cagionare un danno all'immagine della casa comunale.
E la pausa caffè, se fa parte di una prassi mattutina, radicata e addirittura abituale rientra tra i comportamenti condannabili. Ma solo se ripetuto oltre i limiti previsti dalla legge in vigore. Non conta invece che la pausa caffè sia stata consumata all'esterno del luogo del lavoro, pubblico o privato che sia. A fare la differenza sono piuttosto la durata e la frequenza della sospensione dell'attività lavorativa.
La sentenza della Corte di Cassazione si lega alla disposizione in materia per cui il lavoratore ha diritto a un intervallo di pausa dall'esecuzione della prestazione lavorativa quando ecceda le 6 ore nell'ambito dell'orario di lavoro. Le funzioni per le quali è previsto il diritto alla pausa sono individuate nell'esigenza di consentire il recupero delle energie, nell'eventuale consumazione del pasto, per bere una tazzina di caffè e comunque nell'attenuazione del lavoro ripetitivo e monotono.
La durata e le modalità della pausa sono stabilite dalla contrattazione collettiva fra terziario e servizi, edilizia e legno, alimentari, credito e assicurazioni, tessili, trasporti, meccanici, agricoltura e allevamento, enti e istituzioni private, chimica, poligrafici e spettacolo, marittimi, enti pubblici. Tre particolarità vanno sicuramente segnalate.
In prima battuta, la pausa minima stabilita per legge e corrispondente a 10 minuti deve essere fruita consecutivamente affinché possa essere raggiunta la finalità per la quale è prevista. Quindi i periodi di pausa non vanno computati come lavoro ai fini del superamento dei limiti di durata.
Infine, i periodi di pausa non sono retribuiti, salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi. Non sono retribuite le soste di lavoro di durata non inferiore a 10 minuti e non superiore a 2 ore, tra l'inizio e la fine di ogni periodo della giornata di lavoro, durante le quali non sia richiesta alcuna prestazione.
Le norme generali sulla pausa caffè prevedono la concessione di 10 minuti per il lavoratore dipendente con orario superiore alle 6 ore al giorno. Spetta comunque al dipendente stesso decidere se utilizzare questa interruzione per sorseggiare un caffè o per altro. In tutti i casi, la pausa caffè può essere fruita all'esterno o all'interno dell'azienda, al bar o in in pubblico esercizio.
In tutti i casi, nel periodo di riposo non si computano i riposi intermedi, nonché le pause di lavoro di durata non inferiore a 10 minuti e complessivamente non superiore a 2 ore tra l'inizio e la fine di ogni periodo della giornata di lavoro, durante le quali non sia richiesto alcun tipo di prestazione lavorativa in quanto non si tratta di un periodo di riposo continuativo.