Il datore di lavoro può recedere liberamente se il periodo di prova sia stato formalizzato come tale e solo nel caso in cui le capacità e il comportamento del lavoratore in prova siano considerati insoddisfacenti rispetto ai requisti richiesti.
Si tratta di una delle questioni che è oggetto di confusione e dunque bisogno di chiarezza: quando il licenziamento nel periodo di prova è consentito ed è dunque valido ai fini della legge. Le incertezze sono legate proprio alla singolarità della situazione.
Da una parte c'è infatti l'applicazione del più drastico dei provvedimento ovvero l'allontanamento definitivo del lavoratore. Dall'altra c'è però il periodo di prova ovvero quel periodo in cui il dipendente viene testato prima dell'assunzione definitiva, sia essa a tempo determinato o indeterminato.
L'incertezza nasce dal fatto che, per definizione, il periodo di prova è temporalmente limitato e dunque è inevitabili chiedersi se il datore di lavoro può anticipare i tempi del licenziamento:
A differenza di quanto si possa immaginare, non solo il licenziamento nel periodo di prova è ammesso, ma i margini di manovra da parte del datore di lavoro sono anche più ampi. In pratica non è necessariamente richiesto che ci siano di mezzo una giusta causa o un giustificato motivo oggettivo o soggettivo. L'azienda può infatti recedere liberamente (al pari di quanto può fare il lavoratore stesso) purché il periodo di prova sia stato formalizzato come tale.
Dopodiché, il datore di lavoro può procedere solo nel caso in cui le capacità e il comportamento del lavoratore in prova siano considerati insoddisfacenti rispetto ai requisti richiesti. Detto in altri termini, nel caso di licenziamento del lavoratore in prova per motivazioni del tutto personali e magari discriminatorie, si parla di illegittimità del recesso. In questa circostanza, il lavoratore in prova può farsi riconoscere dal giudice il diritto alla prosecuzione del rapporto del periodo di prova e al risarcimento del danno, ma non all'assunzione con contratto a tempo indeterminato.
Più volte i tribunali si sono espressi sul liceità del licenziamento dei lavoratori nel periodo di prova. Lo hanno fanno chiarendo quegli aspetti dei Contratti collettivi nazionali di lavoro e delle leggi in materia che sono rimasti insoluti.
La Corte Costituzionale, ad esempio, ha precisato come sia infondata la questione di legittimità costituzionale nella parte in cui si prevedono che le garanzie per il caso di licenziamento si applichino ai lavoratori in prova soltanto dal momento in cui l'assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi 6 mesi dall'inizio del rapporto di lavoro e, perciò, escludono che durante il periodo di prova il licenziamento del lavoratore debba avvenire con la forma scritta.
Per la Corte d'Appello di Milano il lavoratore licenziato durante il periodo di prova può dimostrare che il recesso è avvenuto per motivo illecito o per motivi diversi da quelli relativi alla convenienza di instaurare un rapporto definitivo. Tra i motivi diversi non assume rilevanza il fatto che il datore di lavoro non sarebbe stato in grado di sopportare economicamente il carico di un dirigente, posto che tale circostanza risulta coerente con la prova che è diretta a valutare la convenienza, anche economica del rapporto.
Da segnalare anche una sentenza del Tribunale di Milano, secondo cui allorché il contratto collettivo applicabile, ai fini della durata del periodo di prova contrattualmente stabilito, faccia riferimento al servizio effettivamente prestato, per verificare la tempestività del licenziamento occorre computare nel periodo di prova anche i giorni di assenza per così dire fisiologica dal lavoro, quali sicuramente i giorni festivi o non lavorativi tra i quali devono essere comprese le giornate di riposo compensativo che partecipano della stessa natura delle giornate di riposo settimanale e festivo cadenti in giorni fissi.
Ricordiamo infine un'altra ben nota sentenza del tribunale del lavoro per cui il licenziamento durante il periodo di prova rientra nella cosiddetta area della recedibilità acausale in quanto il datore è titolare di un diritto potestativo il cui esercizio legittimo non richiede giustificazione.