Le norme sul lavoro in vigore ammettono la possibilità per un parente di prestare gratuitamente la propria attività: è necessario dimostrare che il rapporto si basi sulla solidarietà e non sul guadagno. In buona sostanza occorre il rispetto di determinate condizioni.
I casi di lavoro in famiglia sono potenzialmente numerosi. Pensiamo ad esempio alla situazione comune vede un figlio che dà una mano ai genitori nelle giornata di punta al negozio di famiglia.
O magari li sostituisce per via di un impegno improvviso o di un banale influenza. Il figlio decidere di aiutare ben sapendo che non si tratta della sua occupazione. Lo fa quindi in maniera saltuaria e senza corrispettivo economico ovvero senza farsi pagare.
Nessun contratto firmato, ma solo un indispensabile supporto. Il suo comportamento è legale? O meglio, lo è quello dei genitori che sono titolari del negozio? Cerchiamo di vederci chiaro, allargando la trattazione a tutti i parenti e non solo al rapporto tra genitori e figli. Approfondiamo quindi:
Il problema principale che si pone quando c'è di mezzo un'attività prestata a titolo gratuito è la finzione che sia tale per poi corrispondere la retribuzione in nero ovvero senza pagare contributi previdenziali e imposte.
Le norme sul lavoro in vigore ammettono la possibilità per un parente di prestare gratuitamente la propria attività: è necessario dimostrare che il rapporto si basi sulla solidarietà e non sul guadagno. In pratica non deve recarsi a lavorare in un luogo di lavoro prestabilito e in orari costanti.
Allo stesso tempo non deve rispettare le direttive impartite dalla persona per il quale lavora. In buona sostanza occorre il rispetto di determinate condizioni poiché in caso contrario si configurerebbe un rapporto di lavoro di tipo subordinato.
A norma di legge, in prima battuta l'impresa deve essere realmente gestita e organizzata con criteri familiari e sono quindi escluse le società di capitali. Dopodiché occorre che l'attività sia prestata in favore del coniuge professionista. Infine, le disposizioni prevedono che l'attività sia prestata in favore di un socio di maggioranza o amministratore unico di società di persone.
Per quanto riguarda i redditi di lavoro autonomo nel caso in cui siamo coinvolti parenti e familiari, si segnalano due passaggi fondamentali previsti dalla normativa in vigore.
La prima prevede che non sono ammesse deduzioni per i compensi al coniuge, ai figli, affidati o affiliati, minori di età o inabili al lavoro, nonché agli ascendenti dell'artista o professionista ovvero dei soci o associati per il lavoro prestato o l'opera svolta nei confronti dell'artista o professionista ovvero della società o associazione.
I compensi non ammessi in deduzione non concorrono a formare il reddito complessivo dei percipienti. In seconda battuta non sono ammesse in deduzione a titolo di compenso del lavoro prestato o dell'opera svolta dall'imprenditore, dal coniuge, dai figli, affidati o affiliati minori di età o permanentemente inabili al lavoro e dagli ascendenti, nonché dai familiari partecipanti all'impresa.
Quando si parla di parenti e di lavoro gratuito occorre però chiarire cosa si intende con questa definizione ovvero chi, in termini di legge, può considerarsi tale oppure affine. Nel caso di contestazione con l'Agenzia delle entrate o con l'ispettorato del lavoro, a fare la differenza nella fase difensiva è anche questo aspetto.
Ebbene i gradi di parentela ai quali può essere riferita la prestazione sono i parenti di primo grado (i genitori e i figli); di secondo grado (i nonni, i fratelli e sorelle, i nipoti intesi come figli dei figli); di terzo grado (i bisnonni e gli zii); i nipoti (intesi come figli di fratelli e sorelle, i pronipoti intesi come figli dei nipoti di secondo grado).
A cui aggiungere i cosiddetti affini ovvero i parenti del coniuge. Più esattamente si tratta di quelli di primo grado (i suoceri); di secondo grado (i nonni del coniuge e i cognati); di terzo grado (i bisnonni del coniuge, gli zii del coniuge, i nipoti intesi come figli dei cognati).