Cause licenziamento, se si insulta il proprio capo in chat non si può essere licenziati

di Marianna Quatraro pubblicato il
Cause licenziamento, se si insulta il pr

La condotta diffamatoria presuppone la destinazione delle comunicazioni alla divulgazione nell'ambiente sociale, mentre questo messaggio era uno sfogo in un ambiente limitato.

Non si può licenziare un dipendente perché, su una chat o su una mailing list ha scritto parole pesanti sul proprio capo. Lo hanno stabilito i giudici della Corte di Cassazione con una sentenza che è già diventata oggetto di discussione: una catena di contatti a circuito chiuso è inviolabile. Così ha conservato il posto una guardia giurata di Taranto, che su Facebook aveva definito “faccia di m...” un dirigente. La ragione? Non c'è diffamazione se il luogo di dibattito è chiuso all'esterno. Secondo l'ordinanza del Palazzaccio, la condotta diffamatoria presuppone la destinazione delle comunicazioni alla divulgazione nell'ambiente sociale, mentre il messaggio in questione era uno sfogo in un ambiente ad accesso limitato.

Offese in chat riservata, niente licenziamento

La tutela della segretezza delle comunicazioni riguarda anche le mailing list, le newsgroup e le chat, da considerare alla stregua della corrispondenza privata, chiusa e inviolabile. Per questo, non è possibile attribuire una valenza diffamatoria ai messaggi diffusi all'interno di gruppi ristretti. La sezione lavoro della Corte di Cassazione ha confermato l'illegittimità del licenziamento di un sindacalista, sanzionato per le parole offensive con cui si era riferito all’amministratore delegato dell'azienda in una conversazione nel gruppo Facebook del sindacato.

La schermata della chat era stata stampata e inviata all'azienda da un anonimo e il sindacalista era stato licenziato. Il provvedimento era stato annullato dai giudici della Corte d'appello di Lecce e la Cassazione ha rigettato il ricorso dell'azienda contro la decisione dei giudici di secondo grado. La caratteristica della corrispondenza inviolabile di chat e mailing list, rileva la Suprema Corte, è logicamente incompatibile con i requisiti propri della condotta diffamatoria, che presuppone la destinazione delle comunicazioni alla divulgazione nell’ambiente sociale, mentre l'esigenza di tutela della segretezza delle forme di comunicazione privata o chiusa preclude l'accesso di estranei al contenuto delle stesse.