Quali sono le diverse posizioni di Ue e magistratura italiana sulla questione stipendi, tra diritto ad avere retribuzioni adeguate, gap salariale tra uomo e donna e non solo
Quali sono le importanti leggi dall'Ue sugli stipendi ma anche della magistratura italiana (per tutti, non solo salario minimo)? Gli stipendi sono oggetto di grande discussione ultimamente sia della politica, sia di esperti economi, sia della stessa Ue che si è espressa in materia con diverse direttiva che cambiano in un certo senso il mondo del lavoro.
Secondo la Lagarde, un aumento eccessivo degli stipendi potrebbe alimentare l'aumento dei prezzi oltre l’obiettivo prefissato. Il principio è il seguente: se gli stipendi continuano ad aumentare ancora, bisogna introdurre ulteriori misure restrittive, dopo il continuo aumento dei tassi di interesse che ormai prosegue da mesi, che si ripercuoterebbero ancora, e di nuovo, su consumi e investimenti, danneggiando i cittadini.
Altra recente nuova direttiva Ue sugli stipendi riguarda informazioni e adeguamento degli stipendi tra uomini e donne, per rafforzare la parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore tramite trasparenza retributiva e relativi meccanismi di applicazione.
Per colmare il divario retributivo (gender pay gap) esistente tra uomini e donne, l’Ue ha definito con una nuova direttiva nuove norme sui processi di ricerca, selezione e assunzione del personale, anche per le retribuzioni. I lavoratori e le lavoratrici di aziende pubbliche e private, infatti, potranno sapere quanto guadagnano i colleghi e chiedere un risarcimento danni se percepiscono uno stipendio più basso a parità di mansioni.
Secondo quanto previsto dalla Direttiva Ue 2023/970, le offerte di lavoro dovranno essere neutre sotto il profilo di genere, le procedure di selezione dovranno avvenire in modo non discriminatorio e, dopo l'assunzione, è previsto il divieto del segreto retributivo (diritto all’informazione), norma che sancisce il diritto dei lavoratori di conoscere lo stipendio dei propri colleghi, ma soprattutto di chiedere il risarcimento danni all’azienda se a parità di mansioni la busta paga è inferiore.
E se il datore di lavoro riceve richiesta di informazioni relative agli stipendi, è obbligato a rispondere entro e non oltre due mesi dalla data in cui è stata presentata la richiesta e, se le informazioni ricevute sono imprecise o incomplete, i lavoratori hanno il diritto di richiedere, personalmente o tramite i loro rappresentanti dei lavoratori, chiarimenti e dettagli ulteriori.
Sempre con l’obiettivo di garantire tutela e trasparenza per le retribuzioni, il Parlamento europeo ha recentemente approvato un'altra nuova direttiva che prevede l’obbligo di comunicare lo stipendio ai lavoratori negli annunci di lavoro o in fase di colloquio.
Stando a quanto stabilito, ogni azienda, datore di lavoro o ente avrà l’obbligo di rendere nota, negli annunci di lavoro o durante il primo colloquio, la retribuzione prevista per quella specifica posizione senza chiedere informazioni al candidato alla posizione sulla sua storia salariale in modo da influenzarne la retribuzione anche del nuovo incarico.
Ulteriori interventi dell’Ue sugli stipendi riguardano le modifiche già approvate dalla stessa Europa per aumentare gli stipendi soprattutto di alcune categorie di lavoratori, a partire dagli stagionali, dopo aver già avviato una procedura di infrazione nei confronti dell'Italia, e di altri 9 Paesi, per non aver recepito completamente la direttiva comunitaria sui lavoratori stagionali per garantire loro condizioni di vita e di lavoro dignitose.
L’Ue ha chiaramente spiegato come l’Italia dovrebbe prevenire l’abuso e lo sfruttamento dei lavoratori stagionali con stipendi e norme eque e trasparenti e condizioni di vita e di lavoro dignitose, che proteggano gli impiegati con contratto stagionali dallo sfruttamento.
Non solo l’Ue ma sulla questione stipendi è intervenuta anche la magistratura italiana e diversi Tribunali, e non solo, si sono espressi su diverse materie.
Il Tribunale di Lodi si è recentemente espresso sul cosiddetto tempo tuta, cioè il tempo necessario per la vestizione e svestizione per la pratica di specifiche attività e per l’uso delle protezioni per il rispetto delle norme igieniche a lavoro, da dover far rientrare nell’orario di lavoro e quindi retribuito.
Anche secondo una sentenza della Cassazione del 2018, nell’orario di lavoro deve essere calcolato il tempo impiegato dal dipendente per la vestizione e la svestizione della divisa da lavoro in base a luogo e modalità di lavoro, prescrizioni datoriali, funzionalità della stessa nel rispetto delle previsioni di legge in tema di igiene pubblica, mentre la Corte d’Appello di Roma nel 2021 aveva già specificato che il tempo vestizione deve rientra nel normale orario di lavoro solo quando espressamente richiesto dal datore di lavoro ed è prevista relativa retribuzione da cui non ci può prescindere.
Le recenti posizioni della magistratura si sono recentemente espresse sulla inadeguatezza rispetto al minimo dignitoso richiesto dalla Costituzione della retribuzione fissata da alcuni contratti collettivi.
Per esempio, una recente sentenza del Tribunale di Catania ha ritenuto inadeguata la retribuzione oraria prevista dal CCNL Vigilanza Privata-Servizi Fiduciari, siglato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, per le mansioni di usciere, che prevedeva una paga oraria di 4,607 euro l’ora per gli uscieri inquadrati nel livello retributivo F per uno stipendio mensile lordo di 797,14 euro.
Con ulteriori verifiche di retribuzioni nei settori della logistica e grande distribuzione, Pubblici Ministeri di Milano hanno parlato della possibilità di ipotesi di reato per sfruttamento del lavoro, anche nel caso di applicazione di un contratto collettivo nazionale firmato dai sindacati rappresentativi, se è prevista una paga oraria non proporzionata alla qualità né alla quantità del lavoro prestato e che non consente di garantire una ‘esistenza libera e dignitosa’.