La sospensione della retribuzione al dipendente rappresenta una situazione delicata che coinvolge diritti e doveri di entrambe le parti del rapporto lavorativo. In determinate circostanze, previste dalla normativa vigente, dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro e dalla giurisprudenza, il datore di lavoro può effettivamente procedere con tale provvedimento. Esaminiamo quali sono i casi in cui la sospensione è legittima e quali tutele sono previste per il lavoratore.
Il pagamento del compenso al lavoratore costituisce uno dei pilastri su cui si basa la relazione professionale tra le parti. Il dipendente mette a disposizione il proprio tempo e le proprie competenze in cambio di un corrispettivo economico pattuito con il datore di lavoro.
L'articolo 36 della Costituzione italiana stabilisce che la retribuzione del lavoratore deve essere:
Da questo principio costituzionale deriva il concetto di irriducibilità della retribuzione, secondo cui il salario concordato al momento dell'assunzione non può essere ridotto unilateralmente. Questa garanzia, tuttavia, non si applica ai trattamenti retributivi speciali erogati per particolari modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, qualora vengano meno le condizioni che ne hanno determinato la corresponsione.
Esistono situazioni specifiche in cui il datore di lavoro può legittimamente sospendere la retribuzione del dipendente. Vediamo i casi principali:
Uno dei casi più frequenti di sospensione della retribuzione è l'esercizio del diritto di sciopero da parte del lavoratore. Quando un dipendente partecipa a uno sciopero, si astiene volontariamente dalla prestazione lavorativa e, di conseguenza, perde il diritto alla retribuzione per il periodo di astensione, che può variare da poche ore a più giorni, consecutivi o non consecutivi.
Si tratta di un'applicazione del principio di corrispettività che caratterizza il rapporto di lavoro: se non c'è prestazione lavorativa, non è dovuta la retribuzione. Questa conseguenza non rappresenta una sanzione disciplinare, ma semplicemente l'effetto naturale dell'assenza di prestazione.
L'imprenditore è tenuto, secondo quanto stabilito dall'articolo 2087 del Codice Civile, ad adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, in base alla particolarità del lavoro, all'esperienza e alla tecnica.
In questo contesto, il datore di lavoro può sospendere il lavoratore dalle mansioni e dalla retribuzione quando questi si rifiuta di sottoporsi a misure ritenute fondamentali per la sicurezza sul lavoro. Un esempio significativo è stato affrontato dal Tribunale di Modena in una controversia riguardante un lavoratore che si era rifiutato di vaccinarsi in un contesto in cui la vaccinazione era considerata una misura di protezione essenziale.
In questi casi, il rifiuto del lavoratore non comporta necessariamente sanzioni disciplinari, ma può avere ripercussioni sulla valutazione dell'idoneità alla mansione, con conseguenti effetti sul pagamento dello stipendio. Il datore di lavoro, infatti, si pone come garante della salute non solo del lavoratore stesso, ma anche degli altri dipendenti e dei terzi presenti nei locali aziendali.
La sospensione cautelare può essere disposta dal datore di lavoro durante un procedimento disciplinare per gravi infrazioni, in attesa dell'accertamento definitivo della responsabilità del dipendente. Durante questo periodo, a seconda di quanto previsto dai CCNL di riferimento, lo stipendio potrebbe essere totalmente o parzialmente sospeso.
Molti contratti collettivi prevedono comunque l'erogazione di un assegno alimentare, pari a una percentuale della retribuzione (generalmente tra il 50% e il 70%), per garantire al lavoratore un minimo sostentamento durante il periodo di sospensione cautelare.
Alcuni CCNL prevedono, tra le sanzioni disciplinari, la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per un periodo limitato (generalmente da 1 a 10 giorni), in caso di infrazioni di particolare gravità da parte del lavoratore.
È importante sottolineare che tali provvedimenti devono rispettare la procedura disciplinare prevista dall'articolo 7 dello Statuto dei Lavoratori, che include la contestazione scritta dell'addebito, il diritto di difesa del lavoratore e il rispetto dei termini previsti.
La retribuzione deve essere corrisposta integralmente in numerose situazioni di sospensione del lavoro non imputabili alla volontà del dipendente. In particolare, lo stipendio non può essere sospeso nei seguenti casi:
In queste situazioni, il principio di tutela del lavoratore prevale sul nesso di corrispettività tra prestazione e retribuzione, garantendo la continuità del reddito anche in assenza di effettiva prestazione lavorativa.
Qualora il datore di lavoro sospenda illegittimamente lo stipendio, il lavoratore dispone di diversi strumenti di tutela:
In caso di omesso o ritardato pagamento dello stipendio, il lavoratore può anche invocare l'articolo 1460 del Codice Civile, che disciplina l'eccezione di inadempimento. Secondo questa norma, nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuna parte può rifiutarsi di adempiere la propria obbligazione se l'altra non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria.
La giurisprudenza ha chiarito che il lavoratore deve comunque agire secondo buona fede, valutando la proporzionalità tra l'inadempimento del datore e il proprio rifiuto di prestare l'attività lavorativa.
I Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro svolgono un ruolo determinante nella definizione delle condizioni specifiche in cui può avvenire la sospensione della retribuzione. Ogni CCNL può infatti prevedere regole particolari relative a:
È fondamentale, quindi, che sia il datore di lavoro sia il dipendente conoscano approfonditamente le disposizioni del CCNL applicabile al loro rapporto di lavoro, per evitare comportamenti illegittimi o rivendicazioni infondate.
La Corte di Cassazione ha sviluppato nel tempo una giurisprudenza articolata in materia di sospensione della retribuzione. Alcuni principi consolidati dalla Cassazione includono:
Un orientamento importante della Suprema Corte riguarda la demansionamento: il datore di lavoro che assegna al dipendente mansioni inferiori rispetto a quelle per cui è stato assunto non può ridurre la retribuzione, in virtù del principio di irriducibilità della retribuzione, salvo per quanto riguarda indennità specificamente legate alle mansioni superiori non più svolte.
Un caso particolare di sospensione della retribuzione si verifica quando l'azienda ricorre agli ammortizzatori sociali, come la cassa integrazione guadagni (CIG). In questa situazione, il datore di lavoro è esonerato dall'obbligo di corrispondere la retribuzione, che viene parzialmente sostituita dall'indennità di cassa integrazione erogata dall'INPS.
L'indennità di cassa integrazione corrisponde generalmente all'80% della retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore per le ore non lavorate, entro determinati massimali stabiliti annualmente. È importante sottolineare che il ricorso alla cassa integrazione deve avvenire nel rispetto delle procedure previste dalla legge, che includono l'informazione e la consultazione delle rappresentanze sindacali.
La sospensione dello stipendio in questo caso non è una decisione unilaterale del datore di lavoro, ma consegue a una procedura amministrativa che coinvolge le parti sociali e gli enti pubblici competenti.