Le borse si trovano in un momento di massimo storico, sospese tra l'euforia di nuovi record e l'ansia per un futuro che alcuni temono possa assomigliare fin troppo agli anni Settanta. Quella decade, ricordata per la stagflazione, la crisi petrolifera, le politiche monetarie inefficaci e la paralisi politica, è tornata a far capolino nelle analisi di mercato, alimentando una narrazione intrisa di sospetti e inquietudini.
Gli investitori più attenti osservano la situazione attuale con uno sguardo bifocale: da un lato l'S&P 500 ha sfondato quota 6.300 punti, spinto dalle aspettative legate all'intelligenza artificiale e da un ciclo aziendale ancora solido; dall'altro, gli stessi operatori iniziano a domandarsi se non si stia sottovalutando il rischio di un rallentamento improvviso e prolungato. Secondo il Wall Street Journal, evocare gli anni '70 è più che una suggestione retorica: è un modo per interrogarsi su ciò che accade quando le valutazioni diventano insostenibili, la Federal Reserve perde autonomia, e l'ottimismo si trasforma in rigidità dei fondamentali. Anche se l'inflazione odierna non ha raggiunto i livelli shock del passato, il clima globale appare carico di tensioni: dazi, guerre commerciali, polarizzazione politica e una banca centrale costretta a navigare tra pressioni elettorali e minacce di intervento diretto da parte dell'esecutivo.
Chi teme un ritorno ai tempi bui del mercato azionario spesso dimentica che la storia è più sfumata di quanto sembri. Il Wall Street Journal sottolinea che, dal punto di vista dei rendimenti reali corretti per inflazione, il decennio 2000–2009 è stato persino peggiore rispetto a quello 1973–1982. Chi avesse investito 10.000 dollari nell'S&P 500 all'inizio del 2000, includendo dividendi e correggendo per l'inflazione, si sarebbe ritrovato alla fine del 2009 con un valore reale inferiore a 7.100 dollari.
Una perdita superiore a quella del corrispettivo investimento fatto nel 1973 che avrebbe mantenuto un valore di circa 8.300 dollari dieci anni dopo. La spiegazione è semplice ma spesso ignorata: non conta solo quando si investe, ma anche a quale prezzo. Nel 1973 il p/e aggiustato ciclicamente era attorno a 18 volte, un livello considerato moderato. Nel 2000, in piena bolla dot-com, quel multiplo aveva toccato le 44 volte. I dividendi, nel frattempo, si erano compressi all'1,2%, ai minimi storici. È questo squilibrio iniziale che ha reso il decennio successivo tanto deludente, nonostante un'inflazione contenuta.
Anche durante la Grande Depressione degli anni '30, chi aveva investito in borsa ha visto crescere il proprio capitale, grazie a un mix di valutazioni più sobrie, dividendi robusti e l'effetto deflattivo sui prezzi.
Nell'analisi più aggiornata, il Wall Street Journal ha individuato quattro rischi sistemici che potrebbero invertire la rotta dei mercati. Il primo è il livello elevato dei multipli di valutazione, con un p/e ciclico dell'S&P 500 che ha superato quota 38, e un rendimento da dividendo ancora bloccato su livelli risibili. Un contesto simile richiede una crescita degli utili molto sostenuta per giustificare tali quotazioni, ma non è detto che questa crescita si materializzi. Il secondo rischio riguarda la Federal Reserve, che negli ultimi mesi è tornata al centro del dibattito politico, con minacce velate da parte di esponenti di entrambi gli schieramenti di limitarne l'autonomia.
Una Fed meno indipendente significherebbe una politica monetaria più influenzabile, meno credibile e più reattiva a interessi di parte. Il terzo pericolo è legato al riemergere di tensioni inflazionistiche legate all'energia: dalla possibile chiusura dello Stretto di Hormuz agli attacchi a impianti strategici, lo scenario di shock petrolifero è tutt'altro che improbabile. L'ultimo rischio riguarda il ritorno della stagflazione, ovvero una combinazione di bassa crescita e alta inflazione, che renderebbe inefficaci sia le politiche monetarie espansive che quelle restrittive, bloccando di fatto ogni margine d'azione.
A tenere in piedi le speranze degli investitori è il potenziale rivoluzionario dell'intelligenza artificiale, considerata da molti la nuova leva di crescita in grado di rilanciare la produttività globale. Aziende come Nvidia, Microsoft, Google e Amazon stanno investendo miliardi di dollari in infrastrutture AI, scommettendo su un'accelerazione esponenziale dei ritorni.
Il WSJ invita alla cautela. Anche nel 2000, il boom di internet veniva raccontato come una trasformazione epocale, e in parte lo fu. Ma ciò non evitò una caduta verticale dei titoli tecnologici, seguita da anni di ritorni reali negativi. La domanda è sempre la stessa: quanto è già scontato nei prezzi attuali? Se la risposta è troppo, allora anche un settore promettente può deludere. Non basta la crescita nominale: serve che i profitti aumentino davvero, che i margini siano sostenibili e che la concorrenza non eroda troppo in fretta le rendite. La tecnologia può salvare i mercati solo se è accompagnata da valutazioni sane. In caso contrario, rischia di diventare l'ennesimo catalizzatore di una bolla gonfiata più dall'avidità che dai fondamentali.
La lezione da trarre non è che i prossimi dieci anni saranno per forza come quelli degli anni Settanta, ma che ignorare i segnali d'allarme sarebbe un errore. Le valutazioni elevate, la pressione sulla Fed, il rischio di shock geopolitici e la dipendenza da una narrazione tecnologica non garantita sono fattori che impongono una riflessione seria sulla composizione dei portafogli.
Secondo Alentorn e altri gestori citati dal WSJ, oggi non è più sufficiente affidarsi al tradizionale mix di azioni e obbligazioni: in uno scenario simile a quello stagflattivo, entrambe le asset class potrebbero subire colpi duri. Occorre introdurre strategie decorrelate, come l'equity market neutral, e considerare asset alternativi, dall'oro alle infrastrutture reali, fino a forme di investimento legate alla transizione energetica e alla sicurezza digitale.