Una nuova proposta di legge mira a vietare il velo islamico nei luoghi pubblici in Italia. Cosa prevede la normativa e le reazioni che ha suscitato
La recente proposta di legge avanzata dalla Lega riporta al centro del dibattito politico la questione del velo islamico nei luoghi pubblici in Italia. Il testo, firmato da Igor Iezzi, punta a modificare la normativa del 1975 sul divieto di occultamento del volto, eliminando la deroga attualmente prevista per motivi giustificati. Tra le novità, spicca l’introduzione di un nuovo reato: quello di costrizione all’occultamento del volto, che prevede pene severe per chi obbliga con violenza o minacce a indossare indumenti come il burqa o il niqab.
La proposta di legge della Lega introduce un inasprimento del divieto previsto dalla normativa del 1975, eliminando la deroga legata al “giustificato motivo”. Il divieto di occultamento del volto nei luoghi pubblici riguarderebbe quindi ogni contesto in cui sia necessario garantire sicurezza e identificabilità, includendo spazi pubblici e aperti al pubblico.
Le modifiche proposte intendono impedire l’utilizzo di abbigliamento come il burqa e il niqab, che possono celare l’identità di una persona, portando così maggiore attenzione verso il rispetto delle norme di sicurezza e la neutralità culturale nei luoghi condivisi. La legittimazione dell’obbiettivo si fonda anche sul principio per cui la visibilità del volto rappresenta una necessità in ambito sociale e istituzionale.
Questa proposta introduce una misura particolarmente incisiva attraverso il nuovo reato di costrizione all’occultamento del volto. Tale fattispecie mira a contrastare comportamenti coercitivi, considerati incompatibili con i principi democratici e di uguaglianza sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea e dalla Costituzione italiana.
Secondo la proposta, il reato si configura quando una persona obbliga un’altra, attraverso violenza, minaccia o abuso di autorità, a indossare indumenti come burqa o niqab per celare il volto. Le pene associate prevedono la reclusione da uno a due anni, accompagnata da una multa che può variare tra i 10.000 e i 30.000 euro.
Ulteriori aggravanti sono previste qualora la costrizione riguardi un minore, una donna o una persona con disabilità. In tali circostanze, la pena detentiva e pecuniaria viene aumentata della metà. Nei casi che coinvolgono minori, il giudice può stabilire anche l’allontanamento del minore dalla residenza familiare e la revoca della responsabilità genitoriale dell’autore del reato.
Un aspetto rilevante di questa proposta è che i condannati per tale reato non possono accedere alla cittadinanza italiana. Tale interdizione si allinea con l’obiettivo della normativa di tutelare i valori di libertà e dignità individuale, prevenendo situazioni di sottomissione coatta che annullano l’autodeterminazione della persona. La definizione del reato mira a qualificare come inaccettabile ogni forma di coercizione che violi la libertà personale nella sfera pubblica o familiare.
Sono emerse reazioni contrastanti da parte del panorama politico e sociale. Il partito di maggioranza ha giustificato l'iniziativa come una misura volta alla sicurezza pubblica e alla tutela della dignità femminile. Matteo Salvini ha definito il disegno di legge una "proposta di buonsenso" mirata alla difesa della libertà delle donne e del principio di integrazione.
Dall’altra parte, le critiche più forti sono arrivate dall’Alleanza Verdi e Sinistra (AVS). La capogruppo alla Camera, Luana Zanella, ha accusato la Lega di promuovere un’iniziativa che intensifica la fobia anti-islamica, sostenendo che il provvedimento ignora completamente le libertà fondamentali delle donne, inclusa quella di indossare abiti religiosi per scelta. La proposta è stata definita come una mossa ideologica priva di reali benefici per le libertà individuali.
All’interno del contesto internazionale, l’associazione del principio di neutralità culturale alle limitazioni sugli indumenti religiosi è stata oggetto di dibattito anche presso la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, soprattutto in relazione alla direttiva 2000/78. Gli oppositori sottolineano che una stretta applicazione di tali norme potrebbe violare il quadro normativo europeo sui diritti umani, aggiungendo un ulteriore elemento di complessità al dibattito nazionale sulla questione.