La riduzione della capacità produttiva non è un fatto isolato, ma un terremoto che scuote l'intero tessuto economico.
Negli ultimi anni il settore automobilistico in Italia ha subito una trasformazione che somiglia più a un lento declino che a una fisiologica fase di adattamento. I numeri raccontano una realtà implacabile: la produzione di autovetture, che nel 2000 sfiorava quota 1,7 milioni di unità, nel 2024 è scesa sotto le 600 mila, il livello più basso mai registrato. Una perdita che non si limita ai veicoli prodotti, ma trascina con sé la filiera industriale che orbita intorno agli stabilimenti e alle catene di montaggio.
Le stime elaborate da PwC Strategy& Italia nel report Regearing for growth delineano uno scenario in cui il comparto rischia di bruciare 77 mila posti di lavoro, facendo scivolare l'occupazione da 507 mila a 430 mila addetti, con una contrazione di oltre 10 miliardi di euro di PIL e una perdita di gettito fiscale stimata in circa 3 miliardi l'anno.
La riduzione della capacità produttiva non è un fatto isolato, ma un terremoto che scuote l'intero tessuto economico. Se davvero si materializzasse la perdita di quasi 80mila occupati, gli effetti si propagherebbero a cascata lungo tutta la filiera, dagli stabilimenti principali alle piccole imprese fornitrici di componentistica. L'impatto sul PIL nazionale, stimato da PwC in un calo da 62 a 53 miliardi di euro, non sarebbe solo un numero contabile, ma si tradurrebbe in un impoverimento generalizzato delle comunità locali che vivono di automotive.
A complicare il quadro vi è il percorso verso l'elettrificazione, che in Italia procede con lentezza e con gravi ritardi rispetto agli altri grandi Paesi europei. Le vendite di veicoli elettrici e ibridi plug-in restano marginali rispetto al totale, mentre l'infrastruttura di ricarica è ancora insufficiente a garantire una diffusione su larga scala. Questa incertezza ha generato un cortocircuito: le case automobilistiche esitano a destinare risorse consistenti agli impianti italiani, temendo di trovarsi con modelli non competitivi, e i consumatori non trovano offerte adeguate né incentivi stabili.
Il ruolo di Stellantis è decisivo. Il gruppo, nato dalla fusione di FCA e PSA, rappresenta la quota principale della produzione nazionale e dalle sue scelte dipende la sopravvivenza di diversi stabilimenti. Ma tra aperture intermittenti, chiusure temporanee e saturazioni ben al di sotto della soglia minima di sostenibilità, gli impianti italiani si trovano a lavorare con un tasso di utilizzo sceso dal 72% del 2017 al 38% del 2024. Una forbice che diventa ancora più preoccupante se confrontata con la media europea, ferma al 53%. L'impressione è che l'Italia stia perdendo terreno non solo sul fronte dei volumi, ma anche su quello strategico delle nuove piattaforme elettriche e delle gigafactory per la produzione di batterie.
Intere aree del Paese rischiano di trasformarsi in deserti produttivi, con conseguenze sociali che vanno oltre i licenziamenti diretti. Le catene di subfornitura, spesso costituite da piccole e medie imprese specializzate, non avrebbero la forza di sopravvivere alla perdita dei contratti con le grandi case. In molte regioni del Nord e del Centro, dove la concentrazione di fabbriche automobilistiche è più alta, la chiusura di linee produttive avrebbe un effetto domino su occupazione, redditi e consumi.
Il minor contributo al PIL si tradurrebbe inevitabilmente in un calo delle entrate fiscali. Secondo lo studio, il fisco perderebbe 3 miliardi di euro l'anno, risorse fondamentali che oggi finanziano servizi pubblici essenziali come sanità, istruzione e previdenza. La contrazione delle entrate aggraverebbe i già fragili equilibri della finanza pubblica, aprendo scenari in cui la crisi dell'automotive non sarebbe più soltanto un problema industriale, ma diventerebbe una questione di sostenibilità sociale.
In questo quadro cupo, uno spiraglio di luce arriva dalla possibilità di riconvertire almeno in parte le fabbriche italiane verso settori diversi dall'automotive tradizionale. Secondo PwC, la crescita degli investimenti in Difesa offre un'opportunità concreta di diversificazione. La spesa italiana in armamenti e sistemi militari passerà dai 33,7 miliardi di euro del 2024 a oltre 51,5 miliardi nel 2027, per superare gli 80 miliardi entro il 2035. Una crescita che trascinerà con sé tutta la filiera europea, destinata a raddoppiare il proprio peso sul PIL del continente.
Le connessioni tra automotive e difesa non sono un artificio teorico, ma realtà già esistenti. Molte aziende automobilistiche italiane collaborano da anni con il settore militare nella fornitura di componenti come motori, elettronica, scocche, interni e sistemi di sicurezza. La stessa tecnologia sviluppata per le auto, dagli ADAS all'elettronica di bordo, può essere adattata a veicoli tattici, blindati e sistemi logistici. L'esempio di Iveco Defence Vehicles, più volte al centro di operazioni industriali e acquisizioni, dimostra come la riconversione possa diventare non solo un'ancora di salvezza per la produzione, ma anche un'opportunità per entrare in mercati ad alta domanda.
La strategia suggerita dagli analisti passa attraverso alleanze industriali che permettano alle case automobilistiche e ai fornitori di diversificare il business. Integrare la produzione di componenti civili e militari significherebbe non disperdere competenze e preservare posti di lavoro, sfruttando la complementarità tra i due settori. I programmi europei di sostegno all'industria della difesa e i fondi messi a disposizione dalla Banca europea per gli investimenti offrono strumenti finanziari utili a sostenere questa transizione.
Il vero nodo resta il fattore tempo. Avviare una riconversione richiede anni di investimenti, certificazioni e soprattutto formazione. I lavoratori dell'automotive dovranno essere riqualificati per adattarsi alle nuove tecnologie e ai requisiti della difesa. Senza un piano nazionale di reskilling e senza contratti ponte in grado di garantire continuità occupazionale, il rischio è che la transizione si trasformi in una semplice sostituzione di posti persi con posti che non arriveranno mai.