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Il tempo tuta non va pagato se non si devono indossare i DPI in base a sentenza Cassazione 13639/2024

di Chiara Compagnucci pubblicato il
aggiornato con informazioni attualizzate il
Abiti di lavoro e DPI

La Cassazione, con la sentenza 13639/2024, stabilisce che il tempo tuta non va pagato se non si indossano DPI. Ecco cosa significa per datori di lavoro e dipendenti

La recente sentenza della Corte di Cassazione, ordinanza n. 13639, ha portato un chiarimento significativo in merito alla cosiddetta retribuzione del “tempo tuta”, ossia il periodo impiegato dal lavoratore per indossare e togliere abiti da lavoro o dispositivi di protezione individuale. Il pronunciamento dei giudici ha stabilito che tale periodo non deve essere retribuito se l’uso di dispositivi di protezione individuale (DPI) non è imposto come obbligatorio dal datore di lavoro. Questa posizione giurisprudenziale offre un orientamento preciso su un tema che da anni alimenta dibattiti tra imprese e lavoratori, specialmente nei settori caratterizzati da una parziale regolamentazione sull’uso dell’abbigliamento da lavoro.

Il significato del tempo tuta tra disciplina normativa e giurisprudenza

Il concetto di tempo tuta riguarda il periodo necessario al lavoratore per la vestizione e la svestizione prima o dopo il turno di lavoro. La disciplina di riferimento trova fondamento nel Decreto Legislativo 66/2003, secondo cui l’orario di lavoro corrisponde a qualsiasi periodo durante il quale il dipendente sia a disposizione del datore di lavoro per l’esecuzione delle mansioni assegnate. Tuttavia, la Cassazione ha ribadito che l’obbligo di retribuire il tempo tuta si manifesta solo quando la vestizione è oggetto di eterodirezione, ovvero quando è il datore di lavoro a stabilire luoghi, modalità e tempistiche per l’indossamento dell’abbigliamento aziendale.

Se l’imprenditore non impone uno specifico obbligo di indossare abiti da lavoro o DPI lasciando al personale la libertà di scegliere dove e quando cambiarsi, il tempo tuta non può essere computato come orario di lavoro e, quindi, non è oggetto di retribuzione aggiuntiva. Questa posizione trova conferma nella giurisprudenza consolidata (es. Cassazione n. 5437/2019; Cassazione n. 32477/2021), che identifica come criterio centrale l’assoggettamento concreto del lavoratore alle direttive datoriali su abbigliamento e protezioni.

Distinzione tra abiti da lavoro e DPI: implicazioni pratiche

Un aspetto centrale della sentenza è la differenza tra abiti da lavoro generici e i dispositivi di protezione individuale (DPI). Gli abiti da lavoro possono essere forniti dall’azienda per ragioni di decoro, riconoscibilità o igiene, ma diventano rilevanti ai fini del tempo tuta solo se il loro utilizzo è vincolato da un obbligo esplicito aziendale. Diversamente, i DPI, come caschi, guanti, scarpe antinfortunistiche, mascherine, sono strumenti di tutela previsti dal Decreto Legislativo 81/2008, da indossare per garantire sicurezza e salute nei luoghi di lavoro.

Il tempo dedicato a indossare i DPI rientra nell’orario di lavoro solo quando il loro utilizzo deve avvenire prima dell’inizio delle mansioni operative. Se, invece, i DPI vengono indossati dopo la timbratura del cartellino e sono conservati in azienda (ad esempio negli armadietti dedicati), il periodo necessario per la vestizione è già incluso nell’orario retribuito, escludendo la necessità di ulteriori compensi.

  • Quando la vestizione è obbligatoria e regolamentata dalle direttive datoriali, il tempo impiegato assume valore giuridico come orario di lavoro.
  • Quando essa è spontanea oppure non richiesta formalmente dall’azienda, tale periodo non è soggetto a retribuzione.

Le motivazioni della Cassazione e i riferimenti normativi

La Suprema Corte ha evidenziato che l’attribuzione del tempo tuta al novero dei periodi retribuiti deve fondarsi su precise regole interne, regolamenti aziendali o specifiche clausole di contratti collettivi. Si richiama, a tal proposito, la direttiva europea 2003/88, recepita in Italia dal già citato D.Lgs 66/2003, che chiarisce i diritti minimi in termini di orario di lavoro e di riposo. Particolare menzione merita anche il D.Lgs. 81/2008, in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, che disciplina doveri, obblighi e criteri per la fornitura e l’utilizzo di dispositivi di tutela.

Nel caso esaminato dalla Cassazione, è stata confermata l’assenza di obbligo sia per la vestizione negli spogliatoi aziendali sia per il lavaggio dei capi in azienda, lasciando ai lavoratori ampia autonomia organizzativa. Di conseguenza, il tempo impiegato per indossare o togliere l’abbigliamento in questione non costituisce orario di lavoro retribuito, secondo quanto stabilito dalla norma e dalle interpretazioni prevalenti.

Casi particolari e discipline collettive

Non mancano situazioni in cui il contratto collettivo nazionale o accordi aziendali prevedano condizioni più favorevoli ai lavoratori, integrando il tempo tuta tra i periodi retribuiti. Un esempio è rappresentato dall’art. 85 del CCNL delle cooperative sociali, il quale riconosce un tempo determinato per vestizione e svestizione se vi è un obbligo di utilizzo dei capi aziendali e rischio biologico, includendone anche il lavaggio aziendale.

Va tuttavia rilevato che questo tipo di disciplina si applica esclusivamente se prevista in maniera chiara nel contratto o regolamento aziendale e solo alle categorie interessate. In assenza di disposizioni collettive specifiche, resta valida la regola generale derivante dalla sentenza: il tempo per cambiarsi non è retribuito senza imposizione aziendale.

  • I contratti collettivi possono quindi fare eccezione, ma per essere applicabili è necessaria una previsione esplicita.
  • Sono escluse le ipotesi in cui il lavoratore abbia facoltà di indossare la divisa o i DPI a casa, senza obbligo di farlo in azienda.

Conseguenze pratiche per lavoratori e datori di lavoro

La chiarezza introdotta dalla Corte di Cassazione ha un impatto tangibile su imprese e dipendenti. Per i lavoratori, la possibilità o meno di vedersi riconosciuto come retribuito il tempo di vestizione dipende unicamente dall’impianto regolamentare e contrattuale vigente nella propria realtà lavorativa. Per i datori di lavoro, la sentenza genera certezza gestionale per la pianificazione degli orari, per gli obblighi contrattuali e per la prevenzione di possibili contenziosi futuri in tema di orario di lavoro.

Si consiglia alle aziende di valutare attentamente la disciplina interna relativa agli abiti da lavoro e ai dispositivi di protezione, aggiornando regolamenti e comunicazioni al personale al fine di ridurre ambiguità interpretative e rischi di contenzioso. Per i lavoratori, è opportuno informarsi sui diritti derivanti non solo dalle normative di legge ma anche dai contratti collettivi e dalle policy aziendali applicate nel proprio settore.

Domande frequenti (FAQ) sul tempo tuta

  • Quando il tempo tuta è retribuito?
    Solo se vi è un preciso obbligo aziendale (norma interna, regolamento, contratto collettivo) che impone quando e dove la vestizione deve avvenire.
  • Il tempo per indossare DPI può essere conteggiato?
    Sì, ma solo se i DPI devono essere indossati prima di timbrare il cartellino o comunque prima dell’inizio formale dell’orario di servizio. Se invece la vestizione avviene dopo la timbratura, quel tempo è già incluso nell’orario di lavoro.
  • La libertà di cambiarsi a casa esclude la retribuzione?
    Sì. Se il lavoratore può cambiare la divisa o indossare il DPI a casa o dove preferisce, senza imposizione aziendale, il tempo non viene retribuito.
  • I contratti collettivi possono prevedere regole diverse?
    Certo. Ma solo se le clausole specifiche identificano l’obbligo temporale e organizzativo della vestizione nei locali aziendali.
  • Cosa succede in caso di rischio biologico?
    Potrebbero attivarsi obblighi specifici (es. vestizione in azienda, lavaggio a carico del datore di lavoro) solo se previsti da norme di settore o regolamenti aziendali.
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