In un contesto globale segnato da tensioni e crescente instabilità, l'Italia si trova a dover valutare nuovi investimenti nella difesa. Tra dati, pressioni internazionali, rischi economici e priorità strategiche, il dibattito si fa acceso.
Mutamenti geopolitici, crisi internazionali e la richiesta di una maggiore sicurezza individuano la difesa come uno dei temi centrali per il governo e l'opinione pubblica. L'interrogativo se l'Italia debba incrementare la spesa per la sicurezza nazionale si intreccia con la necessità di rispettare impegni internazionali e salvaguardare le esigenze interne.
Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha lanciato un allarme: l’Italia non è oggi in grado di difendersi da un attacco, dopo vent’anni di tagli alla spesa militare. Con solo due batterie SAMP/T operative, flotte obsolete e scorte limitate, il Paese potrebbe sostenere un conflitto su larga scala solo per pochi mesi. Nel 2024 la spesa per la Difesa è stata di 25,6 miliardi di euro (1,4% del PIL), ben al di sotto del 2% richiesto dalla NATO.
Il governo ha avviato una corsa agli armamenti: nuovi carri Panther e Lynx, caccia Eurofighter e F-35, sottomarini U-212 e fregate FREMM Evo, oltre a missili e sistemi anti-drone. Questi programmi rafforzeranno lo strumento militare, ma richiederanno anni per essere completati e non risolveranno subito la carenza di munizioni e sistemi di difesa aerea.
Lo scudo a cui fa riferimento Crosetto è l’European Sky Shield Initiative, che mira a creare una difesa antimissile multilivello sul modello dell’Iron Dome. L’Italia vi partecipa, ma disporrà di un sistema nazionale efficace solo dal 2030-2031, quando le nuove batterie SAMP/T e l’integrazione con i sistemi alleati saranno pienamente operative. Nel frattempo, il Paese resta dipendente dalla protezione NATO, pur cercando di recuperare autonomia industriale e capacità militare.
D'altra parte c'è una posizione diversa che possiamo sintetizzare con il messaggio di Fabio Panetta, governatore della Banca d’Italia: senza pace non c’è prosperità né crescita economica. La guerra distrugge il capitale produttivo (infrastrutture, macchinari, materie prime) ed erode il capitale umano, colpendo le nuove generazioni, interrompendo istruzione e formazione e piegando le risorse a fini bellici. Risultato: minore disponibilità e qualità della forza lavoro qualificata e sviluppo compromesso.
La spesa militare italiana ha mostrato un andamento altalenante negli ultimi due decenni, riflettendo cambiamenti economici, strategie politiche e pressioni internazionali. Nel 2024 le risorse previste per il Ministero della Difesa ammontano a circa 31,3 miliardi di euro, rappresentando il 3,4% della spesa pubblica nazionale. Di questa somma, circa il 30% è destinato a investimenti in innovazione, nuove tecnologie, mezzi ed infrastrutture, confermando una tendenza a sostenere la modernizzazione delle Forze Armate.
Tuttavia, se rapportata al PIL, la spesa nazionale si attesta all'1,57%, ancora distante dalla soglia del 2% richiesta dall'Alleanza Atlantica dal 2014. Il budget ha seguito una crescita lenta: da 20,2 miliardi di euro nel 2017 si prevede possa raggiungere i 31,7 miliardi nel 2027, senza superare il 3,5% della spesa statale. A questi dati occorre aggiungere circa 1,48 miliardi per missioni internazionali e quasi 3 miliardi provenienti dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy per progetti strategici nei settori aeronautico, navale e tecnologico.
Il confronto internazionale mette in luce alcune criticità: malgrado l'impegno a rafforzare la propria capacità difensiva, l'Italia resta tra i Paesi NATO che meno investono in proporzione al PIL. D'altro canto, l'Unione Europea si muove verso un rafforzamento della politica di difesa comune con il piano ReArm e progetti da centinaia di miliardi di euro, aprendo opportunità ma anche introducendo nuovi vincoli, in particolare per paesi con un debito pubblico elevato:
Anno |
Spesa Difesa (Mld €) |
Spesa % su PIL |
2016 |
19,9 |
~1,2 |
2023 |
27,7 |
~1,5 |
2024 (stima) |
31,3 |
1,57 |
Obiettivo 2027 |
31,7 |
~2,0 (NATO) |
L'adesione agli impegni dell'Alleanza Atlantica rappresenta uno dei fattori principali nella definizione della politica di spesa militare italiana. Dal 2014, tutti i membri NATO sono chiamati a destinare almeno il 2% del PIL per la difesa: un obiettivo che per Roma si scontra con la realtà del bilancio pubblico e la necessità di mediare tra diversi interessi nazionali.
L'attuale contesto internazionale, caratterizzato da rischi crescenti e da una diminuzione della stabilità globale, ha intensificato le pressioni affinché l'Italia aumenti rapidamente la propria spesa. Le recenti posizioni espresse da Stati Uniti ed altri alleati hanno accentuato questa richiesta, sottolineando come una maggiore autonomia europea in materia di sicurezza sia indispensabile, specie in un panorama segnato dall'incertezza dei rapporti transatlantici.
A livello europeo, la Commissione ha promosso il piano ReArm, uno strumento finanziario che favorirebbe l'incremento degli investimenti nel settore attraverso l'uso di fondi comunitari. Per l'Italia, ciò significherebbe poter accedere a prestiti tra i 20 e i 30 miliardi, da destinare a personale, sistemi di difesa aerea, modernizzazione dei mezzi e sviluppo tecnologico. Tra i vincoli principali figurano la conciliazione con le regole del Patto di Stabilità e la difficoltà di integrare pienamente le diverse strategie di difesa dei Paesi membri. In definitiva:
L'incremento delle risorse destinate alla difesa produce effetti positivi che si riflettono su diverse dimensioni:
Nel 2024 i Paesi dell’Unione europea hanno speso 343 miliardi di euro per la Difesa, pari all’1,9% del PIL con l’obiettivo di raggiungere il 2% entro il 2025. Le risorse sono state destinate soprattutto all’acquisto di armamenti, mentre ricerca, sviluppo e infrastrutture hanno ricevuto meno attenzione.
Uno studio citato nel dossier Europa a mano armata mostra che la spesa militare genera meno occupazione rispetto a investimenti in sanità, istruzione o ambiente, che avrebbero effetti più ampi sull’economia e sulle filiere locali. Il settore della Difesa, infatti, è ad alta intensità tecnologica ma impiega pochi lavoratori e, poiché il 70% delle armi è acquistato fuori dall’Europa, l’impatto moltiplicatore sul territorio è limitato.
La crescita delle aziende belliche si riflette soprattutto in Borsa, dove i titoli aumentano di valore seguendo l’andamento dei conflitti, senza corrispondenti benefici occupazionali. Rheinmetall, ad esempio, ha visto il suo valore crescere del 300% tra il 2022 e il 2024, ma l’occupazione è salita solo del 15%. In Italia, lo stabilimento di Domusnovas ha risposto alla domanda con turni di lavoro continui e più contratti interinali, senza incrementare i dipendenti stabili.
Ecco allora che la crescita della spesa nel settore difensivo espone a una serie di controindicazioni da valutare attentamente: