Il concetto della retribuibilità del tempo impiegato per indossare la divisa - noto come tempo tuta - non si esaurisce nell'atto di cambiarsi: conta la presenza o meno dell'eterodirezione ovvero il controllo e la volontà del datore nel determinare il tempo, il luogo e la modalità di svolgimento della vestizione. Quando l'azienda impone che il lavoratore indossi la tuta all'interno dei propri spazi, magari prima di timbrare il cartellino, o stabilisce orari precisi per cambiarsi, si è di fronte a un'attività che si innesta nell'orario di lavoro a tutti gli effetti.
È proprio in questi casi che il tempo tuta diventa tempo lavorato e deve essere regolarmente retribuito, con tutte le conseguenze in termini contributivi e previdenziali. Al contrario se il lavoratore ha libertà di scegliere se vestirsi a casa o in azienda, e non c'è alcuna direttiva, il tempo resta confinato nel novero delle attività preparatorie personali, quindi non soggette a retribuzione. Vediamo in questo articolo:
Il principio della retribuzione in presenza di obbligo implicito
Il ruolo dei contratti collettivi e degli accordi aziendali
La giurisprudenza ha fornito una mappa per orientarsi tra le diverse situazioni. Una delle sentenze più importante è la 33937 del 2023 della Corte di Cassazione secondo cui laddove il lavoratore sia tenuto a indossare obbligatoriamente una divisa in sede e tale operazione sia collegata all'organizzazione aziendale, il tempo impiegato va considerato orario di lavoro effettivo. Non solo: la mera indicazione consuetudinaria, come ad esempio un avviso interno o una prassi aziendale consolidata, è sufficiente a integrare l'elemento dell'eterodirezione, anche in assenza di un obbligo contrattuale formale.
Nel caso deciso dal Tribunale di Milano nel luglio 2023, è stato riconosciuto come tempo lavorativo il periodo destinato alla vestizione in azienda, nonostante l'azienda affermasse che il lavoratore avrebbe potuto cambiarsi a casa. La corte ha stabilito che l'organizzazione del lavoro imponeva di fatto la presenza in sede già in divisa, rendendo così l'alternativa teorica – quella di cambiarsi a casa – giuridicamente irrilevante. In altre parole a contare è il comando organizzativo, anche se mascherato da libertà apparente.
I comparti maggiormente interessati alla questione sono quelli in cui la divisa non rappresenta soltanto un simbolo di appartenenza aziendale, ma uno strumento per la sicurezza, l'igiene e il rispetto di protocolli normativi. Nella sanità pubblica e privata, ad esempio, l'utilizzo di camici sterili, scarpe dedicate e dispositivi di protezione individuale rappresenta un obbligo ineludibile. Nessun infermiere può entrare in reparto già vestito da casa senza violare standard igienici. Proprio per questo motivo, nella maggior parte dei casi, i tribunali riconoscono il diritto alla retribuzione per il tempo tuta nel settore sanitario, anche in assenza di indicazioni esplicite sul badge.
Anche nell'industria alimentare e in quella metalmeccanica, i cambi frequenti di indumenti per motivi di sicurezza o pulizia sono spesso legati a turni organizzati e spogliatoi interni. In questi contesti, i contratti collettivi nazionali, così come gli accordi aziendali integrativi, possono stabilire se e come il tempo per indossare e togliere la divisa debba essere computato nell'orario lavorativo. In alcune aziende strutturate, il badge viene timbrato prima della vestizione, segno evidente che l'azienda considera quel tempo esterno al lavoro. In altri casi la timbratura avviene dopo aver indossato la divisa, e questo può diventare elemento probatorio in sede di contenzioso.
Non va poi trascurato il ruolo della contrattazione decentrata che può introdurre clausole migliorative rispetto al dettato nazionale, riconoscendo anche un tempo fisso giornaliero convenzionale da remunerare a prescindere dalla reale durata dell'operazione di cambio.