Dal 2006 il tuo sito imparziale su Lavoro, Fisco, Investimenti, Pensioni, Aziende ed Auto

Perché i giovani non trovano un lavoro giusto per quello che hanno studiato? Cosa manca che viene richiesto dalle aziende

di Marcello Tansini pubblicato il
Cosa manca che viene richiesto aziende

Un punto che emerge dalle indagini condotte a livello europeo riguarda le competenze richieste dalle aziende.

Il divario tra ciò che i giovani imparano sui banchi di scuola o nei corridoi universitari e ciò che le imprese cercano nei candidati è diventato ormai un nodo strutturale, profondo e difficile da sciogliere. In tutta Europa – e in modo ancor più marcato nei Paesi del Sud come l’Italia – la frattura tra formazione teorica e applicabilità pratica si è acuita, alimentando un sentimento diffuso di frustrazione.

I dati Eurostat parlano chiaro: nel 2024 il tasso di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non si formano (i cosiddetti NEET) si è attestato al 19,9% in Italia. Se da un lato le università producono laureati in discipline sempre più verticali e teoriche, dall’altro le aziende faticano a trovare candidati con competenze spendibili, soprattutto in settori a forte innovazione come la meccatronica, l’automazione industriale, l’ICT e le energie rinnovabili.

La situazione si complica in un contesto segnato da cambiamenti economici, sociali e demografici. Le imprese non cercano semplici esecutori, ma soggetti capaci di adattarsi a tecnologie in costante evoluzione, di lavorare in team internazionali, di risolvere problemi complessi in tempi brevi. La formazione accademica tradizionale resta però ancorata a una logica trasmissiva, basata sull'accumulo di conoscenze astratte piuttosto che sulla costruzione di competenze operative. Questo scarto metodologico tra aula e fabbrica, tra teoria e contesto produttivo, è uno dei motivi per cui tanti giovani non riescono a trovare un impiego coerente con il proprio percorso formativo.

Le competenze mancanti: tecniche, digitali e trasversali

Un punto che emerge dalle indagini condotte a livello europeo riguarda le competenze richieste dalle aziende, che oggi non coincidono più con quelle insegnate. Il CEDEFOP, centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale, ha rilevato che nel 2024 oltre il 40% delle imprese europee ha segnalato difficoltà nel reperire profili tecnici adeguati, soprattutto in ambiti come la progettazione digitale, la robotica, le telecomunicazioni avanzate e l’intelligenza artificiale. L’assenza di queste competenze è un elemento che ostacola l’assunzione dei giovani, anche quando possiedono un titolo di studio formalmente valido. A cui si aggiunge la carenza di abilità digitali trasversali: non basta più conoscere un software, serve saper interpretare processi automatizzati, analizzare dati, lavorare con strumenti collaborativi e adattarsi a un ambiente ibrido in continua mutazione.

Ma ciò che le aziende faticano a trovare sono le soft skill, quelle competenze non tecniche legate al comportamento, alla relazione, alla capacità di adattamento. Secondo un report di LinkedIn Europe, il 76% dei recruiter nel 2025 considera la comunicazione efficace e la gestione del tempo più importanti delle competenze digitali di base. Ma il sistema educativo continua a valorizzare soprattutto la performance individuale, il voto, il nozionismo, tralasciando quegli aspetti esperienziali che si sviluppano attraverso progetti, laboratori, stage, simulazioni.

Nel frattempo, le transizioni ecologiche e digitali stanno riscrivendo la mappa delle professioni. Entro il 2030, la Commissione Europea stima che saranno almeno 20 milioni di lavoratori con competenze green, ma a oggi solo una parte minoritaria dei percorsi formativi prepara i giovani ad affrontare questa sfida. Le imprese del settore energetico, della bioedilizia, della mobilità sostenibile denunciano una carenza di tecnici, analisti ambientali, progettisti di sistemi circolari. L’Italia, nonostante l’attivazione degli ITS Academy e la riforma della formazione terziaria non universitaria, fatica ancora a costruire un ponte stabile tra scuola, territorio e impresa. Il successo occupazionale dell’ITS (oltre l’85% dei diplomati trova lavoro entro un anno) dimostra però che una formazione pratica e condivisa con le aziende funziona, ma resta circoscritta a una fascia troppo limitata della popolazione studentesca.

Cosa serve davvero per colmare il gap: una visione sistemica e partecipata

La causa dell’inoccupazione giovanile non può essere ricondotta a un’unica responsabilità. Le università sono chiamate a riformare i propri modelli didattici, abbandonando il culto del sapere teorico fine a sé stesso. Le imprese, dal canto loro, possono investire con più decisione in programmi di onboarding, mentoring, upskilling e reskilling. La responsabilità pubblica è infine quella di disegnare un’infrastruttura di alleanze territoriali tra scuola, università, centri per l’impiego, enti di formazione e mondo produttivo, orientata a costruire un ecosistema regionale del talento.

In questo senso, le esperienze nate in città come Berlino, Amsterdam, Milano o Lione - dove i giovani partecipano a skill hub, laboratori di orientamento professionale e percorsi co-progettati con le aziende - sono un modello da valorizzare e replicare. Serve anche una nuova cultura della formazione continua, perché nel mondo del lavoro di oggi nessuna competenza dura per sempre. I giovani devono essere educati fin da subito al principio del lifelong learning, ovvero alla consapevolezza che il sapere è un processo in divenire, non un traguardo definitivo. A oggi, solo il 28% dei lavoratori tra i 20 e i 29 anni partecipa ai programmi di formazione offerti dalle imprese: un numero troppo basso per un’Europa che vuole affrontare da protagonista le transizioni tecnologiche e ambientali.

Leggi anche