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Perché in Italia si lavora così poco (e spesso male)?

di Marcello Tansini pubblicato il
Si lavora male in Italia

Il lavoro in Italia si trova a un bivio tra quantità e qualità, segnato da dati contrastanti, sfide storiche e culturali, basse retribuzioni e nuove forme di lavoro digitale, mentre si cercano soluzioni per migliorare produttività e benessere.

La domanda su perché lavoriamo così poco si intreccia con la constatazione che l'Italia presenta un tasso di partecipazione al lavoro tra i più bassi d'Europa, soprattutto per quanto riguarda donne e giovani. Tuttavia, la questione non si esaurisce nel mero conteggio delle ore lavorate, ma coinvolge anche la produttività, la soddisfazione personale e la qualità dell'impiego svolto.

Questa complessità emerge dall'incrocio tra dati statistici e percezioni diffuse, indicando che il Paese si trova in una fase di ridefinizione del rapporto tra vita privata e lavoro, con implicazioni profonde sul benessere individuale e sulla coesione sociale.

Lavorare poco o lavorare male? Dati e percezioni a confronto

I dati rilevati dagli istituti di statistica europei mostrano che, nel corso della vita, un cittadino italiano dedica mediamente 32,8 anni al lavoro su una prospettiva di vita di 83,4 anni. Questo valore risulta inferiore rispetto ad altri Stati membri dell'Unione, riflettendo sia una minore partecipazione al mercato del lavoro sia periodi più lunghi d'inattività legati a disoccupazione o inattività volontaria o forzata. Il tasso di disoccupazione giovanile permane elevato (attorno al 18,7%), mentre la partecipazione delle donne al mercato del lavoro oscilla intorno al 50%, distante dalla media di altri paesi avanzati. Questi dati oggettivi si scontrano con una percezione sociale secondo la quale l'impegno richiesto risulta spesso superiore alle reali necessità produttive, ma non determinando comunque un aumento della produttività.

Secondo Eurostat, in Italia si lavora in media 37 ore settimanali, al pari di molti paesi europei, ma con un differenziale negativo sulla produttività per ora lavorata. Il fenomeno della povertà lavorativa (working poor) riguarda circa il 10% degli occupati, i quali, pur lavorando, non riescono a uscire da condizioni economiche precarie. L'età media elevata dei lavoratori e la bassa natalità incidono sull'equilibrio del mercato del lavoro e sulla sostenibilità futura del sistema pensionistico.

Sul piano delle percezioni, permane una generale insoddisfazione per le condizioni lavorative, accentuata dalle difficoltà di accesso all'occupazione stabile per giovani e donne, così come dal permanere di modelli organizzativi ancorati a schemi tradizionali che ostacolano sia l'innovazione che la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

Il confronto con le grandi economie europee evidenzia una situazione paradossale: nei paesi dove si lavora meno ore, come Germania, Danimarca e Paesi Bassi, la produttività per ora lavorata si attesta su livelli nettamente superiori rispetto all'Italia. Ad esempio, in Germania si registrano circa 1.371 ore lavorate pro capite annue, contro le 1.725 dell'Italia, ma con un PIL pro capite di 41.000 euro rispetto ai 30.000 italiani.

Paese

Ore lavorate/anno

PIL pro capite (€)

Germania

1.371

41.000

Italia

1.725

30.000

Danimarca

1.380

49.200

I dati smentiscono l'automatismo secondo cui più ore lavorative determinerebbero una maggiore ricchezza prodotta. L'efficienza organizzativa, l'investimento in capitale umano, la digitalizzazione dei processi e la qualità delle relazioni industriali appaiono quindi variabili centrali. In Italia, ritardi tecnologici, mancanza di formazione continua, dimensione ridotta delle imprese e scarsa autonomia decisionale dei dipendenti limitano la capacità di innovare e migliorare le performance produttive, evidenziando un circolo vizioso tra quantità e qualità.

Cause storiche, culturali e sociali del lavoro in Italia

L'attuale modello lavorativo italiano trova radici in stratificazioni storiche e in elementi culturali profondi: il passaggio dal fordismo alla terziarizzazione è stato lento, attraversato da crisi industriali e transizioni demografiche. La cultura del lavoro si fonda su valori trasmessi dalla generazione del boom economico, che vedevano nell'impegno e nel sacrificio le chiavi del riscatto sociale, un paradigma oggi in parte superato dalle nuove generazioni che ricercano equilibrio e benessere personale. In pratica:

  • Famiglie multigenerazionali e protezione sociale: ancora oggi, molti giovani tra i 18 e i 34 anni vivono con la famiglia d'origine, anche per la difficoltà di accesso al lavoro e all'autonomia abitativa.
  • Rigidità normativa: il mercato del lavoro è stato storicamente caratterizzato da elevata protezione dei contratti a tempo indeterminato e da una scarsa flessibilità, insieme a ritardi nell'adattamento delle politiche attive.
  • Gender gap e questione giovanile: il divario di genere nell'accesso al lavoro e la scarsa valorizzazione del capitale umano giovane restano tra gli ostacoli principali alla crescita economica inclusiva.
Il peso di modelli educativi e lavorativi superati, insieme a resistenze alla transizione digitale e alla cultura del “posto fisso”, continuano a condizionare scelte individuali e collettive, rallentando una piena modernizzazione del sistema.

La questione salariale e la povertà lavorativa

La dinamica retributiva degli ultimi decenni in Italia mostra una stagnazione se non addirittura una contrazione del potere d'acquisto. Secondo studi recenti, il reddito medio dei lavoratori dipendenti è diminuito del 3,4% in termini reali dal 1991, rappresentando un'anomalia nel contesto dei paesi industrializzati. Il divario rispetto alle grandi economie UE e OCSE si accentua soprattutto nella fascia media e alta delle retribuzioni, mentre la quota di lavoratori in condizioni di lavoro povero ha raggiunto circa il 10%, con rischi anche per la futura sostenibilità pensionistica.

  • Il sistema di contrattazione collettiva e l'assenza - al momento - di un salario minimo legale hanno contribuito a mantenere ampie aree di retribuzione al di sotto delle soglie europee. Al momento non esiste una legge nazionale sul salario minimo.
  • La mobilità sociale è bassa e i giovani tardano a entrare nei percorsi di autonomia.
  • Elevati fenomeni di lavoro informale e precarietà, spesso legati a bassi salari, impediscono l'investimento in formazione e crescita professionale.
L'incremento della povertà lavorativa riguarda anche professioni tecniche e qualificate, segnalando una criticità strutturale legata alla competitività del sistema e alla scarsa propensione all'innovazione e al valore aggiunto nei processi produttivi.

Tra lavoratori triste e possibili soluzioni

Il report State of the Global Workplace 2025 di Gallup fotografa una condizione difficile per i lavoratori italiani, descritti come poco coinvolti, stressati e soli. Solo il 10% degli intervistati si sente partecipe della vita aziendale, contro una media globale del 21%. Lo stress colpisce quasi la metà dei lavoratori (49%), ponendo l’Italia tra i peggiori Paesi europei, mentre tristezza (21%) e solitudine (13%) sono emozioni quotidiane diffuse. Non sorprende che il 37% pensi di lasciare il proprio impiego.

Le cause principali sono economiche. Secondo l’ILO, dal 2008 l’Italia ha perso l’8,7% di potere d’acquisto, peggior risultato nel G20. Eurostat segnala inoltre l’aumento del numero di occupati a rischio di povertà, salito al 10,2%, con una forte incidenza tra le donne (52% dei lavoratori a basso salario).

A questo scenario si aggiunge la persistente fuga di cervelli: tra il 2013 e il 2022 oltre un milione di italiani ha lasciato il Paese, di cui un terzo tra i 25 e i 34 anni. Tra questi, circa 132.000 erano laureati, mentre i rientri sono stati molto più ridotti, con una perdita netta di 87.000 giovani laureati.

Numerosi esperimenti europei - in Islanda, Germania, Regno Unito e Portogallo - mostrano come la riduzione dell'orario di lavoro, mantenendo invariata la retribuzione, abbia generato un aumento della soddisfazione e della produttività, oltre che nuove opportunità occupazionali. In particolare, l'adozione della settimana lavorativa di quattro giorni con le stesse condizioni salariali ha trovato consenso tra i lavoratori e le aziende, promuovendo una redistribuzione del lavoro e una migliore conciliazione tra attività professionale e vita privata.

  • I risultati sperimentali hanno evidenziato una riduzione dello stress, un miglior equilibrio tra vita lavorativa e personale e una diminuzione dei costi legati a malattie e assenteismo.
  • Secondo l'ISTAT, l'orario medio settimanale in Italia non si è ridotto negli ultimi decenni, segnalando una resistenza strutturale al cambiamento rispetto ad altri contesti avanzati.
  • Il dibattito sulla possibilità di “lavorare tutti, lavorare meno” è supportato dall'analisi delle più recenti politiche di welfare e sviluppo sostenibile lanciate a livello europeo (Agenda ONU 2030, obiettivo n.8).
L'Italia si trova di fronte alla sfida di promuovere forme organizzative innovative, valorizzando le risorse umane e incentivando la flessibilità come strumento per incrementare il benessere collettivo e stimolare la crescita occupazionale.

Innovazione, smart working e nuove forme di lavoro

Negli ultimi anni, l'affermazione dello smart working e delle nuove tecnologie digitali ha rappresentato uno dei principali driver di cambiamento del lavoro in Italia. Sebbene il periodo pandemico abbia accelerato l'adozione del lavoro da remoto, nei settori privati e pubblici sono emerse diverse criticità: il confine tra tempi di vita e tempi di lavoro si è spesso assottigliato, senza che ciò corrispondesse automaticamente a un incremento di benessere o produttività. La cultura manageriale è rimasta ancorata a modelli di controllo tradizionali, rallentando un'effettiva diffusione della flessibilità organizzativa.

Esperienze internazionali confermano che la qualità dell'ambiente lavorativo, l'investimento in formazioni trasversali e l'utilizzo consapevole delle tecnologie possono rappresentare leve utili per un salto di qualità, che nel contesto italiano rimane ancora ampiamente inespresso.