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Perché le grandi multinazionali stanno vendendo diversi brand famosi? Cosa c'è dietro queste decisioni

di Marcello Tansini pubblicato il
Il pressing degli investitori

La finanza detta il ritmo e le multinazionali ballano. È questo, in sintesi, il secondo grande motore dietro le dismissioni.

Le operazioni di vendita, scorporo e dismissione di brand famosi da parte di colossi come Unilever, Nestlé, Kraft Heinz e Kellogg raccontano molto più di una semplice razionalizzazione del portafoglio prodotti. Siamo di fronte a una trasformazione sistemica del modello multinazionale, un passaggio che ha radici nella storia e che affonda nel cuore delle nuove logiche industriali e finanziarie del XXI secolo. A partire dalla pandemia, che ha stravolto ogni equilibrio, i grandi gruppi hanno assistito a una crescita repentina dei consumi domestici. Durante i lockdown, le vendite di beni confezionati e prodotti da scaffale hanno toccato livelli record e spinto le aziende a rialzare i listini, in alcuni casi anche oltre l’effettiva crescita dei costi. Questo ha portato a un corto circuito tra prezzi, distribuzione e volumi che si è rivelato solo a posteriori: la fine delle restrizioni ha riportato in superficie le fragilità di un sistema basato sull’espansione continua.

Quando la normalità è tornata a bussare alla porta, i consumatori hanno ricominciato a fare scelte più attente, orientandosi verso prodotti locali, private label e alternative più sostenibili. La fedeltà ai grandi marchi si è incrinata e lasciato spazio a una nuova sensibilità verso qualità percepita, trasparenza e accessibilità. In questo contesto, molti dei brand storici delle multinazionali si sono rivelati troppo costosi, troppo standardizzati, troppo impersonali. E così, da asset strategici, sono diventati zavorre da cedere.

Il pressing degli investitori accelera le cessioni

La finanza detta il ritmo e le multinazionali ballano. È questo, in sintesi, il secondo grande motore dietro le dismissioni. Negli ultimi dodici mesi, titoli come quelli di Nestlé, Kraft Heinz, PepsiCo e Unilever hanno perso terreno sui mercati, in certi casi anche del 20%. L’equazione è semplice e impietosa: se il titolo non cresce, si cambia rotta. E cambiare rotta significa fare cassa, recuperare marginalità e restituire valore agli azionisti.

La strategia è nota nel linguaggio delle grandi corporation come portfolio rotation. Si vendono i rami secchi, i marchi meno redditizi, le divisioni che non offrono prospettive di crescita significative. In cambio si liberano risorse da reinvestire in settori più promettenti: gli snack, i piatti pronti, i cibi funzionali, i prodotti naturali e, in alcuni casi, anche le alternative plant-based. Ma c’è di più. In questo scenario, la cessione può essere anche un’arma per evitare guerre interne tra manager, o per sottrarre segmenti a rischio a scandali e crisi reputazionali. È il caso del comparto acque di Nestlé, finito sotto pressione dopo le inchieste sul filtraggio della Perrier in Francia. In situazioni come queste, vendere è anche un modo per ridurre il rischio legale e proteggere la reputazione complessiva del gruppo.

Le operazioni si moltiplicano, e cambiano la geografia del consumo globale: Kellogg si è scissa in due entità, di cui una (Kellanova) è stata rilevata da Mars per 36 miliardi. Unilever ha annunciato l’intenzione di quotare la divisione gelati - con marchi come Algida, Ben & Jerry’s e Magnum - trasformandola in un’entità autonoma da otto miliardi di euro di fatturato. Nestlé sta cercando acquirenti per Sanpellegrino e Acqua Panna, mentre Kraft Heinz medita uno spezzatino tra i propri settori alimentari. Una nuova era si apre, ma non per tutti.

Il ritorno degli imprenditori pazienti e delle strategie locali

Nel grande gioco delle dismissioni, gli acquirenti cambiano pelle. Non sono più soltanto fondi speculativi, spesso affamati di ritorni rapidi e sinergie immediate, ma imprese familiari, gruppi industriali locali, fondi pazienti con una visione di lungo periodo. In particolare, sono molte le aziende italiane che si stanno muovendo con decisione per intercettare questi asset “orfani” delle multinazionali. C’è un motivo: l’Italia ha un sistema imprenditoriale ancorato a valori come identità, filiera corta e legame con il territorio, e può trasformare quelli che per i colossi sono semplici linee di prodotto in marchi da rilanciare con narrativa, autenticità e innovazione.

Un esempio è Perfetti Van Melle, che ha acquistato per 1,35 miliardi le attività del chewing-gum di Mondelez, portando a casa brand come Trident e Dentyne. Un altro è NewPrinces Group (ex Newlat) che ha rilevato Plasmon da Kraft Heinz, puntando su un rilancio made in Italy basato su tracciabilità e fiducia. In questi casi, la vendita non è un addio, ma l’inizio di una seconda vita per marchi dimenticati. Un ciclo virtuoso che si autoalimenta: le multinazionali si alleggeriscono, i gruppi locali si rafforzano, e i consumatori ritrovano prodotti noti, ma con un nuovo volto.

In questo contesto si fa largo una domanda: il modello multinazionale è davvero al tramonto? La risposta non è netta. Come sottolinea Giorgio Santambrogio, non è la multinazionale in sé a essere superata, ma il suo approccio standardizzato, impersonale, distaccato. Chi saprà dialogare col cliente, raccontare il valore del prodotto, differenziarsi su sostenibilità, qualità e prossimità culturale, continuerà a essere competitivo. Chi resterà ancorato alla logica del volume senza visione, rischia invece l’irrilevanza.