Il quesito chiede agli elettori se vogliono abrogare una parte della normativa che oggi disciplina le tutele per i lavoratori dipendenti di aziende con meno di 16 dipendenti.
Nel quadro dei cinque quesiti referendari che gli italiani saranno chiamati a votare l'8 e il 9 giugno 2025, il secondo quesito riguarda il mondo del lavoro, in particolare le tutele in caso di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese. Si tratta di un tema molto tecnico, ma con impatti pratici su milioni di lavoratori e datori di lavoro, soprattutto nel tessuto produttivo italiano, composto in gran parte da aziende con meno di 16 dipendenti. Ecco una guida per orientarsi tra le ragioni del sì e del no:
Il quesito propone di eliminare il riferimento a questo tetto massimo di sei mensilità e consentire così al giudice di valutare caso per caso l'entità dell'indennizzo da riconoscere al lavoratore ingiustamente licenziato, anche se l'azienda ha meno di 16 dipendenti. In altre parole, si vuole rimuovere un limite economico predeterminato e aprire alla possibilità che l'indennizzo sia calcolato in modo più flessibile.
Il testo ufficiale del quesito referendario è formulato in linguaggio tecnico-giuridico, ma la sostanza si riduce a una domanda molto concreta: le piccole imprese devono essere tenute a risarcire di più i lavoratori licenziati ingiustamente o va mantenuto un limite fisso a tutela della loro sostenibilità economica?
Nel caso in cui prevalga il sì, il Parlamento sarà costretto ad abrogare le norme che fissano un limite massimo all'indennizzo. In concreto, il risarcimento potrà superare le sei mensilità, avvicinandosi, nei casi più gravi, ai livelli di tutela garantiti oggi ai dipendenti delle imprese con più di 15 lavoratori, dove già il giudice può stabilire un'indennità più ampia o ordinare il reintegro, a seconda delle situazioni.
Una simile modifica produrrebbe una maggiore eguaglianza tra lavoratori di aziende grandi e piccole, risolvendo quella che i promotori del referendum considerano una disparità di trattamento ingiustificata. Secondo la Cgil, che ha sostenuto la raccolta firme, questa disparità alimenta una condizione di debolezza contrattuale per i dipendenti delle microimprese, che oggi rischiano molto di più in caso di licenziamento arbitrario, proprio per via del limite economico ridotto.
Se a prevalere sarà il no, oppure se il quorum del 50% più uno degli aventi diritto non verrà raggiunto, nulla cambierà rispetto alla situazione attuale. I giudici continueranno ad applicare i limiti esistenti per le aziende sotto i 16 dipendenti, mantenendo fermo il tetto massimo delle sei mensilità. Le piccole imprese conserverebbero dunque un margine di prevedibilità e sostenibilità dei costi anche in caso di cause di lavoro, senza il rischio di indennizzi troppo onerosi o imprevedibili.
I sostenitori del no sottolineano che le microimprese costituiscono la colonna vertebrale dell'economia italiana e che aumentare i possibili oneri in caso di contenzioso potrebbe scoraggiare l'assunzione di nuovi dipendenti o incentivare il lavoro irregolare. In questa visione, il limite alle indennità è visto come una garanzia di equilibrio tra la protezione del lavoratore e la sopravvivenza dell'impresa, soprattutto in un periodo economico ancora segnato da incertezze.
Un altro argomento ricorrente tra chi si oppone all'abrogazione riguarda il timore di un aumento del contenzioso giudiziario, con imprese più esposte al rischio di dover affrontare cause complesse e costose. Per queste ragioni, la vittoria del no viene interpretata come un segnale di stabilità normativa e di difesa dell'occupazione nel suo complesso, specie nelle aree economicamente più fragili.