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Tempi di vestizione e svestizione vanno sempre pagati se l'azienda obbliga un certo tipo di abbigliamento secondo Cassazione

di Marcello Tansini pubblicato il
Tipo di abbigliamento

La Corte di Cassazione stabilisce che il tempo impiegato per indossare o togliere divise obbligatorie va retribuito. Quadro normativo, soggetti coinvolti, requisiti, oneri di prova, eccezioni ed effetti pratici.

Tradizionalmente ritenute attività preparatorie o accessorie alla prestazione lavorativa, le operazioni di vestizione e svestizione sono state oggetto di contestazioni sia sotto il profilo giuridico sia nella prassi di gestione del rapporto di lavoro. In particolare, l'attenzione si è focalizzata sull'eventuale diritto a un compenso aggiuntivo nei casi in cui il datore di lavoro imponga obblighi di indossare determinati indumenti, specialmente in settori caratterizzati da elevati standard di sicurezza o igiene.

Analizzando il recente orientamento della giurisprudenza, emerge una definizione progressivamente più ampia e articolata dei presupposti che danno luogo all'obbligo di remunerazione per questo tempo di lavoro, con effetti concreti sulla tutela dei lavoratori e su come le aziende devono programmare processi e orari.

L'evoluzione giurisprudenziale: il principio secondo la Corte di Cassazione

Negli ultimi anni la Corte di Cassazione ha svolto un'opera di affinamento interpretativo in materia di tempi di vestizione, chiarendo quando le attività preparatorie come indossare e togliere la divisa rientrano a tutti gli effetti nell'orario di lavoro retribuito. Con l'ordinanza n. 25034/2025, è stato definitivamente stabilito che la retribuibilità non riguarda esclusivamente prestatori turnisti o con mansioni sanitarie a contatto diretto con i pazienti, ma si applica anche a tecnici specializzati o lavoratori che operano al di fuori delle canoniche sedi ospedaliere.

Il principio cardine sancito è che l'elemento decisivo non è la qualifica o la natura sanitaria dell'attività, bensì l'esistenza di un obbligo imposto dal datore riguardo il tipo di abbigliamento da adottare. In particolare ciò rileva quando il tempo impiegato per la vestizione e svestizione non coincide con l'orario di lavoro contrattualmente previsto e risulta quindi aggiuntivo rispetto alla prestazione ordinaria.

Questo orientamento si pone in linea con il concetto di orario di lavoro definito a livello europeo e presso la normativa nazionale, valorizzando il principio di eterodirezione, che lega la retribuzione alle attività imposte dal datore. La stessa Suprema Corte ha chiarito che anche accordi collettivi come il CCNL Sanità possono definire specifici parametri (ad esempio, il riconoscimento fino a 15 minuti previo riscontro nelle timbrature), ma sempre nel rispetto del principio che solo le attività realmente dovute al potere direttivo aziendale e svolte fuori dal normale orario vanno retribuite autonomamente.

Ambiti applicativi: chi ha diritto alla retribuzione del tempo-tuta secondo la recente ordinanza

L'innovativa interpretazione fornita dalla Cassazione amplia la platea dei soggetti aventi diritto al riconoscimento del tempo destinato alla vestizione e svestizione. La pronuncia riforma un orientamento restrittivo, originariamente limitato al personale sanitario turnista o agli addetti alle sale operatorie, comprendendo anche altri operatori tecnici spesso impegnati in servizi svolti al di fuori delle strutture sanitarie, come gli autisti del servizio di emergenza territoriale (ad esempio, personale del 118).

La Suprema Corte ha puntualizzato che, ai fini del riconoscimento della retribuzione, la mansione non deve essere per forza legata direttamente all'assistenza sanitaria; è sufficiente che le condizioni di servizio impongano la vestizione di abiti o dispositivi non assimilabili a normali abiti civili e che tale obbligo sia definito dal datore. L'esempio emblematico citato nell'ordinanza coinvolge il caso in cui alcuni lavoratori tecnici fossero esclusi dal diritto in primo grado, in quanto formalmente privi di obblighi di continuità turnistica, ma in realtà soggetti a direttive aziendali stringenti sull'abbigliamento.

In tutti i casi, si sottolinea che la richiesta di retribuzione si estende a coloro che devono indossare divise, dispositivi di protezione specifici (DPI), o altri abiti lavorativi peculiari. Restano invece esclusi i casi di semplice dress-code generico, non riconducibile a un obbligo formale e non correlato a esigenze produttive, sanitarie o di sicurezza.

I requisiti fondamentali: obbligatorietà, luoghi e modalità della vestizione

L'analisi giuridica e pratica dei casi trattati dalla Cassazione individua i requisiti che devono sussistere affinché il tempo-tuta venga retribuito come lavoro effettivo. Di seguito le condizioni emerse:

  • Obbligatorietà dell'abbigliamento: deve esistere un preciso obbligo, derivante dal regolamento aziendale, da procedure interne, o disposizioni di legge, che imponga l'utilizzo di specifici indumenti o DPI per ragioni di igiene, sicurezza o identificazione professionale.
  • Vincolo spaziale: il cambio d'abito deve avvenire in luoghi aziendali determinati; quando è consentito cambiarsi a casa o fuori dalla sede, la retribuibilità si riduce, salvo che ciò non sia precluso da esigenze di servizio.
  • Contestualità temporale: la vestizione e la svestizione devono precedere l'inizio del turno o seguire la fine, senza sovrapporsi all'attività lavorativa ufficialmente timbrata. Ad esempio, la richiesta di indossare la divisa prima di entrare in reparto costituisce un onere eccedente rispetto all'orario di lavoro ordinario.
  • Finalità funzionale: le operazioni di vestizione sono considerate attività lavorative quando sono strumentali alla sicurezza degli utenti e degli operatori stessi, come nel settore sanitario, alimentare o industriale ad alto rischio.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale e la regolamentazione dei Decreti Legislativi in materia di sicurezza sul lavoro, le fasi di vestizione diventano parte integrante dell'orario di lavoro solo se sono imposte da prescrizioni aziendali (senza alcuna possibilità discrezionale per il dipendente) ed eseguite in determinati tempi e luoghi fissati dall'ente. L'aspetto della stretta eterodirezione, ossia della sottoposizione alle direttive aziendali, si rivela quindi essere discriminante nel riconoscimento del compenso.

La prova e l'onere documentale a carico del lavoratore

Il riconoscimento di un diritto alla retribuzione per i tempi di vestizione e svestizione è subordinato alla capacità di dimostrare le condizioni di fatto che legittimano la richiesta. Secondo la Cassazione, incombe sul lavoratore l'onere di provare, con elementi precisi e documentabili, che il cambio d'abito avvenga effettivamente prima dell'inizio del turno retribuito e/o dopo il termine, come attestati dalle timbrature. Tale principio si declina operativamente in questi punti:

  • L'attività di cambio divisa deve essere estranea all'orario di lavoro registrato tramite badge o sistemi di rilevazione delle presenze.
  • Il lavoratore è tenuto a dimostrare non solo l'obbligatorietà della vestizione nei locali aziendali, ma anche che tale attività avvenga in un momento non coincidente con le presenze ufficiali.
  • È necessario fornire prove circostanziate, come dichiarazioni testimoniali, documentazione interna, regolamenti aziendali espliciti o istruzioni operative datate.
Ad esempio, il personale sanitario che intenda ottenere la cosiddetta "indennità di divisa" deve poter comprovare che le operazioni di vestizione e svestizione vengano effettuate fuori dall'orario misurato tramite timbrature. In assenza di riscontri, la pretesa viene rigettata, come illustrato da recenti pronunce anche in materia di CCNL Sanità e pubblico impiego.

Le esclusioni: casi in cui la retribuzione non spetta

L'elaborazione giurisprudenziale individua circostanze che escludono l'obbligo di corrispondere una retribuzione aggiuntiva per il tempo dedicato alla vestizione e svestizione. Tali esclusioni sono:

  • L'assenza di un vero e proprio obbligo imposto dal datore: ove il cambiamento d'abito resti facoltativo, o sia consentito recarsi e tornare dal lavoro già in divisa.
  • Indumenti assimilabili ad abbigliamento civile o ai cosiddetti "dress code aziendali non peculiari": i semplici obblighi estetici, non correlati con la sicurezza o l'igiene, non generano oneri retributivi aggiuntivi.
  • Utilizzo di DPI solo successivamente all'inizio della prestazione lavorativa e dunque dopo la registrazione della presenza: in tali casi, il tempo speso non è oggetto di compenso a parte.
  • Mancanza di prova sufficiente da parte del dipendente: come già evidenziato, in assenza di elementi certi e riscontrabili – ad esempio, indicazioni temporali nei badge, richiesta espressa di cambiarsi nei locali interni – la domanda non può essere accolta.
Inoltre, i casi specifici in cui regolamenti interni, norme di settore o contratti collettivi prevedono limiti temporali massimi sono da intendersi come criteri orientativi ma non esaustivi. Resta prioritaria la verifica fattuale della sussistenza delle condizioni sopra indicate.