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Tessile, settore sempre più in crisi. Chiusure e vendite aziende e rischio licenziamenti per 300mila addetti

di Marcello Tansini pubblicato il
crisi settore tessile

Il settore tessile italiano affronta una crisi profonda che sta proseguendo da diversi anni, tra chiusure aziendali, perdita di posti di lavoro e difficoltà nelle comunità. Analisi delle cause, casi simbolo e possibili strategie per il futuro.

Negli ultimi anni, il comparto tessile nazionale ha vissuto una graduale e dolorosa trasformazione. Il sistema produttivo, storicamente simbolo del made in Italy, si trova oggi ad affrontare una fase caratterizzata da difficoltà economiche persistenti, riduzione del numero di imprese attive e calo significativo dell’occupazione. L’intreccio tra competitività internazionale, dinamiche di mercato instabili e scelte industriali ha prodotto una situazione che desta crescente preoccupazione tra lavoratori, imprese e istituzioni. La situazione attuale, sottolineata da una caduta nella produzione e nella domanda interna, pone in discussione l’intero modello di sviluppo di un settore che aveva fatto dell’eccellenza manifatturiera e della tradizione la propria forza distintiva.

Dinamiche della crisi: chiusure aziendali, licenziamenti e perdita di occupazione

Il panorama produttivo dell’abbigliamento e dei tessili in Italia evidenzia una progressiva erosione della base industriale. Nel periodo che va dai primi otto mesi del 2025 rispetto all'anno precedente, la produzione del settore ha subito un calo del 6,6%, con la chiusura di 11 imprese ogni giorno, di cui la maggior parte sono realtà artigiane di piccole e medie dimensioni. Tale dinamica ha determinato una perdita di oltre 1.000 aziende nel solo secondo trimestre del 2025.

L’andamento degli occupati segue parallelamente una traiettoria discendente. Attualmente, in Italia, il settore moda impiega circa 461.000 lavoratori, ma la perdita registrata nell’ultimo decennio è significativa. In aree ad alta densità industriale come Cavarzere, la riduzione in venti anni ha toccato il 60% delle imprese, con una drastica diminuzione dei posti di lavoro da oltre 1.000 a circa 250.

I licenziamenti collettivi sono divenuti episodi frequenti, con centinaia di lavoratori coinvolti come nel caso della Filartex a Palazzolo sull’Oglio (63 licenziamenti) e della Manifattura del Casentino (13 lavoratori). A questi si aggiungono situazioni in cui, dopo la chiusura, emergono meccanismi di riapertura delle stesse attività sotto differenti ragioni sociali, fenomeno che contribuisce a precarizzare ulteriormente l’occupazione attraverso la perdita di diritti acquisiti e di anzianità.

Si assiste anche a casi positivi di salvataggio, come per la Tirso di Trieste, dove l’intervento di una multinazionale ha evitato l’avvio di 160 licenziamenti imminenti. Tuttavia, questi successi rimangono eccezioni in un contesto fortemente critico e instabile. Questi dati mostrano come la filiera stia affrontando una crisi sistemica, i cui effetti colpiscono in maniera trasversale lavoratori, imprenditori e comunità locali.

Cause strutturali e congiunturali della crisi nel comparto tessile

Le difficoltà che attraversano il comparto tessile trovano origine in un intreccio complesso di cause strutturali e congiunturali. Dal punto di vista congiunturale, l’aumento dell’inflazione e dell’incertezza economica ha reso i consumatori più cauti nella spesa, con una marcata attenzione al prezzo che penalizza il prodotto italiano. Il settore ha subito inoltre la pressione della concorrenza estera, particolarmente marcata nei confronti delle produzioni asiatiche – in primis dalla Cina –, che hanno incrementato la propria quota di importazioni in Italia fino a rappresentare oltre un terzo di quelle extra-UE.

Dall'altro lato, il comparto risente di debolezze strutturali che ne minano la redditività:

  • obsolescenza di parte dell’apparato produttivo,
  • basso livello di investimenti in tecnologie innovative,
  • assenza di strategie di lungo periodo per la valorizzazione del prodotto italiano in un contesto globale in rapida trasformazione.
Ulteriori difficoltà derivano dall’instabilità regolatoria e dalla capacità di alcune realtà di aggirare vincoli contributivi e fiscali, attivando cicli ripetuti di aperture e chiusure che vanificano la continuità aziendale e indeboliscono l’intero sistema territoriale.
Fattori congiunturali Fattori strutturali
Inflazione post-pandemica Scarso rinnovamento tecnologico
Aumento dei costi energetici Debolezza dei meccanismi di filiera
Contrazione dei consumi Modelli di business datati
Competizione dei mercati asiatici Difficoltà nella creazione di marchi protetti

La somma di queste condizioni ha prodotto un effetto domino, con aziende costrette alla liquidazione giudiziale e impossibilitate a reggere la pressione del mercato globale, specialmente in assenza di una strategia di sistema.

Impatto sociale ed economico sulle comunità locali e sui lavoratori

Le ricadute della crisi si riverberano pesantemente a livello sociale e territoriale. La perdita dei posti di lavoro si traduce in un aumento della precarietà, aggravando la situazione economica delle famiglie e riducendo le prospettive dei giovani, spesso disincentivati dall’intraprendere carriere in un settore percepito come instabile.

Nei distretti storici, il tessuto comunitario subisce una perdita di identità: la chiusura di aziende con decenni di storia, come la Manifattura del Casentino, rappresenta anche la scomparsa di un patrimonio culturale e di conoscenze artigianali difficilmente recuperabili. La riduzione dei servizi, il calo del potere d’acquisto e lo scoraggiamento degli investimenti in innovazione peggiorano il clima locale, mentre la gestione frequente dei fallimenti aziendali impone costi aggiuntivi alla collettività, tramite l’utilizzo dei fondi di garanzia pubblici per il pagamento delle spettanze.

I riflessi si percepiscono anche a livello di sensibilità politica e istituzionale, con sindacati costretti a intervenire ripetutamente per difendere diritti e tutele, e amministrazioni locali impegnate nella ricerca di soluzioni di emergenza. L’aumento della propensione al risparmio, come indicato da studi recenti, riflette la percezione diffusa di insicurezza tra i cittadini.

Nel complesso, la crisi intacca la coesione sociale delle comunità colpite, lasciando segni tangibili sull’occupazione, sull’orgoglio identitario e sulle prospettive di sviluppo dei territori interessati.

Casi emblematici: Cavarzere, Filartex, Manifattura del Casentino e Tirso di Trieste

Il quadro nazionale trova riscontro diretto in alcuni episodi che illustrano le molteplici sfaccettature delle difficoltà in atto:

  • Cavarzere: Questo comune veneto è divenuto esempio del fenomeno di “apri e chiudi” con aziende tessili che, spesso a conduzione straniera, cessano l’attività dopo pochi anni e riaprono con nuove ragioni sociali. Tale meccanismo, segnalato dai sindacati locali, comporta per i lavoratori la perdita sistematica dei trattamenti di fine rapporto e dell’anzianità, aggravando condizioni di instabilità cronica per circa 250 addetti rimasti su un territorio che vent’anni fa contava oltre un migliaio di occupati.
  • Filartex di Palazzolo sull’Oglio: Questa azienda storica rappresentava un pilastro produttivo nella “Manchester dell’Oglio”. Dopo oltre 60 anni di attività, la società ha cessato l’attività, lasciando 63 dipendenti in attesa della cassa integrazione e al centro di una procedura di liquidazione giudiziale. Sindacati ed enti locali attribuiscono le cause a indebitamento, dismissioni immobiliari senza successo, eccessivo rincaro delle materie prime e mercato instabile.
  • Manifattura del Casentino: Il fallimento di questa azienda, specializzata nella lavorazione del panno omonimo e con radici profonde nel tessuto artigianale toscano, ha significato non solo la perdita di 13 posti di lavoro, ma anche la scomparsa di un prodotto identitario del territorio. Il caso evidenzia la mancanza di sinergia tra imprese, la difficoltà di valorizzare una eccellenza attraverso marchi protetti e l’assenza di una strategia condivisa di rilancio.
  • Tirso di Trieste: In questa realtà, a fronte di una crisi scaturita dall’impennata dei costi energetici e dalle difficoltà finanziarie, il subentro di una multinazionale radicata sul territorio ha consentito la salvaguardia di 160 posti di lavoro. Il salvataggio, però, rappresenta una felice eccezione in un clima generale di difficoltà diffusa.
Questi episodi mettono in luce quanto i problemi del settore siano diversificati, talvolta legati a dinamiche locali e, in altri casi, dipendenti da fattori globali o da scelte imprenditoriali discutibili.

Strategie di salvataggio e prospettive future per il tessile italiano

Affinché il comparto possa superare l’attuale crisi, è necessario elaborare strategie di rilancio e riqualificazione che includano sia interventi di breve periodo sia azioni di visione sistemica.

Tra le strade percorribili emergono:

  • Maggiore coordinamento tra imprese e istituzioni, al fine di prevenire fenomeni distorsivi di apertura e chiusura ripetuta delle aziende;
  • Promozione di investimenti in innovazione tecnologica e formazione delle competenze, per rafforzare la competitività rispetto alle economie più aggressive;
  • Incentivazione all’aggregazione tra aziende e creazione di sistemi di marchio collettivo o DOP, come proposto in Casentino;
  • Sostegno normativo alla trasparenza e alla sostenibilità sociale delle filiere, anche tramite la revisione dei meccanismi di accesso agli ammortizzatori sociali e agli incentivi pubblici.
Le recenti esperienze di salvataggio indicano che la collaborazione tra soggetti pubblici e privati sia una chiave per la continuità produttiva. Tuttavia, le prospettive dipenderanno dalla capacità del settore di sfruttare la propria tradizione artigianale, coniugandola con l’innovazione e la flessibilità organizzativa necessarie nel contesto globale attuale.