L’aumento dei prezzi dei carburanti, frutto di un’intesa tra compagnie petrolifere, ha innescato dure sanzioni Antitrust. Cosa č successo, le conseguenze per gli automobilisti italiani e le reazioni ufficiali delle societŕ coinvolte
L’intervento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato su alcune delle principali compagnie di distribuzione di carburanti in Italia ha riacceso l’attenzione sulla trasparenza del settore energetico nazionale. Il mercato dei carburanti nel Paese si caratterizza per la presenza di pochi grandi operatori che, attraverso una rete capillare di distributori, determinano l’andamento dei prezzi dai quali dipendono famiglie, trasporti e imprese.
Negli ultimi anni, la pressione normativa verso energie più sostenibili ha portato all’introduzione di una nuova componente bio, un elemento sempre più rilevante nella definizione dei costi alla pompa.
Proprio questa componente è stata al centro di un’intensa attività di vigilanza che, partendo da una segnalazione interna, ha permesso di accendere i riflettori su pratiche potenzialmente dannose per la concorrenza e gli utenti finali, rivelando criticità nella determinazione dei prezzi e nelle dinamiche competitive.
Secondo le stime, in tre anni il rincaro determinato da tale coordinamento avrebbe inciso per circa 2 miliardi di euro complessivi ai danni della clientela finale, alimentando sfiducia nei confronti della trasparenza del settore. Le ricadute vanno però oltre la semplice maggiorazione delle tariffe, mettendo in forse la credibilità stessa del comparto energetico e i rapporti di fiducia tra operatori e cittadini.
L’introduzione della componente bio nei carburanti, necessaria per allinearsi agli obblighi normativi comunitari e nazionali in materia di biocarburanti, ha rappresentato una svolta significativa nella determinazione dei prezzi per la distribuzione alla pompa.
Secondo quanto emerso dall’attività istruttoria dell’Antitrust, tale componente sarebbe stata usata come elemento di coordinamento tra i maggiori operatori del settore. Attraverso scambi costanti di informazioni e comunicazioni dirette – documentate anche da pubblicazioni su periodici di settore – le società coinvolte avrebbero allineato il valore di questo parametro ben oltre la mera reazione alle dinamiche di mercato. Nel periodo compreso tra gennaio 2020 e giugno 2023, il valore della componente bio, che nel 2019 si attestava intorno ai 20 euro per metro cubo, è stato progressivamente elevato fino a raggiungere circa 60 euro per metro cubo.
Questa impennata, secondo l’Autorità, non sarebbe spiegabile solo con l’aumento dei costi produttivi o con le fluttuazioni dei mercati mondiali dei biocarburanti, ma risulta il frutto di intese sistematiche di compartecipazione tra società rivali.
Tale comportamento, vietato dal Codice Antitrust, mira a ridurre la pressione competitiva, generando un effetto domino sull’intera filiera del carburante a danno della libera concorrenza e, di riflesso, degli automobilisti.
L’azione sanzionatoria dell’Autorità ha colpito sei dei maggiori gruppi attivi nella raffinazione e nella distribuzione dei carburanti in Italia, imponendo una maxi multa antitrust alle compagnie petrolifere per un totale di 936.659.087 euro. I soggetti direttamente interessati dal provvedimento sono Eni, Esso, Ip, Q8, Saras e Tamoil, esclusi invece Iplom e Repsol per assenza di responsabilità accertata. Sul piano dettagliato:
L’istruttoria Antitrust ha ricostruito in modo analitico le metodologie mediante le quali il prezzo della componente bio veniva fissato e condiviso tra i vari operatori del settore.
Il cartello si sarebbe sviluppato attraverso scambi informativi sia diretti che indiretti, facilitati dalla pubblicazione sistematica dei valori di riferimento su un quotidiano di settore consultato dagli addetti ai lavori.
In particolare, si è riscontrato che Eni trasmetteva direttamente a questa testata i dati relativi alla nuova componente, fungendo così da punto di riferimento per l’intero comparto.
Questo approccio avrebbe consentito alle aziende di allineare quasi simultaneamente le variazioni tariffarie, creando un sistema basato su aumenti concomitanti che non lasciavano spazio a strategie alternative indipendenti.
Un simile allineamento – protrattosi per oltre tre anni – ha impedito il naturale funzionamento delle forze di mercato, alimentando un percorso di crescita dei prezzi che, secondo l’Autorità, non presentava alternative per i concorrenti né, tantomeno, per gli utenti finali.
La decisione dell’Antitrust si fonda su una robusta raccolta di elementi probatori di natura documentale, testimoniale e informatica.
L’avvio di questa indagine, innescato dalla segnalazione di un whistleblower, ha permesso agli investigatori di acquisire comunicazioni interne tra le società coinvolte e analizzare la ripetitività e la coincidenza temporale degli aumenti applicati. Tra gli elementi più significativi che hanno sostenuto la tesi dell’intesa restrittiva figurano:
Secondo i comunicati ufficiali, le compagnie sostengono che la determinazione dei prezzi della componente bio sia stata trasparente e conforme sia alle logiche di mercato sia agli obblighi normativi.
Alcuni operatori, tra cui Q8 e Tamoil, hanno annunciato la volontà di intraprendere ricorsi legali contro la sanzione, ritenendo le valutazioni dell’Antitrust errate o decontestualizzate rispetto alle reali modalità operative adottate.
Le imprese sottolineano inoltre il rischio che provvedimenti di questa portata possano nuocere agli investimenti industriali nazionali, soprattutto nel delicato contesto della transizione energetica. L’avvio delle procedure di impugnazione testimonia la complessità della materia e la necessità che questioni di rilevanza sistemica siano valutate anche in sede giurisdizionale.