A ogni bonifico corrisponde un nome, a ogni addebito una preferenza, a ogni spesa una deduzione sulla nostra capacità di spesa e sul nostro stile di vita.
Le banche oggi, mentre noi immaginiamo di avere solo un conto corrente, costruiscono un ritratto digitale estremamente accurato di ognuno dei propri clienti, un profilo che arriva a comprendere abitudini di vita e perfino aspetti della nostra sfera intima. Ne ha scritto la giornalista Milena Gabanelli nella rubrica Dataroom del Corriere della Sera, dove apprendiamo che ogni volta che firmiamo un modulo per un nuovo servizio, crediamo di dare un consenso neutro a procedure di routine, ma in verità stiamo cedendo informazioni che diventeranno pezzi di un mosaico comportamentale dal valore economico crescente. Il linguaggio dei documenti è volutamente complesso, perché la piena consapevolezza dell’utente equivarrebbe alla consapevolezza di una trattativa che non si presenta mai come tale.
A ogni bonifico corrisponde un nome, a ogni addebito una preferenza, a ogni spesa una deduzione sulla nostra capacità di spesa e sul nostro stile di vita. Le banche registrano dove viviamo e dove ci muoviamo, cosa acquistiamo, se abbiamo figli, se siamo divorziati, se usufruiamo di cure mediche o se, semplicemente, frequentiamo palestre, tabaccherie o piattaforme come OnlyFans. Nulla sfugge: lo smartphone da cui ci colleghiamo, il luogo in cui effettuiamo un pagamento, persino il tono della nostra voce durante le chiamate al servizio clienti diventa un parametro comportamentale.
Non esiste solo ciò che forniamo. Le banche acquistano informazioni da data broker e incrociano dati provenienti da camere di commercio, centrali rischi, social network e siti web. Questi elementi vengono trasformati grazie a algoritmi predittivi e sistemi di machine learning che alimentano una profilazione avanzata, definita così da Dataroom nella sua inchiesta: una profilazione capace di prevedere comportamenti futuri e di trasformare la persona fisica in un consumatore controllato da leve psicologiche note a una sola controparte, la banca. Secondo Gabanelli, siamo di fronte a un potere informativo che non esisteva in nessuna precedente fase della storia del mercato bancario, un potere che oggi cres ce in modo esponenziale grazie all’intelligenza artificiale, alimentata da dati che noi stessi paghiamo per generare.
La profilazione è lo strumento principe della monetizzazione. Le banche osservano, analizzano, simulano e, infine, decidono quando e come intervenire con un’offerta: se abbiamo bisogno di liquidità, ecco comparire un prestito; se arriva un figlio, scatta la polizza vita; se il sistema rileva segnali di insicurezza economica, il cliente viene incanalato verso proposte che assecondano la vulnerabilità del momento. Non si tratta più di marketing, ma di ingegneria del comportamento. Alcuni istituti utilizzano la sentiment analysis, misurando la nostra reazione emotiva ai prodotti proposti per cogliere l’attimo in cui siamo più predisposti a dire sì.
Il cliente viene bombardato attraverso canali in apparenza innocui: email, app, call center. La banca sa quando siamo più raggiungibili, quando siamo più stressati o più rilassati, quando i nostri conti ci dicono che abbiamo paura di spendere o che potremmo osare un upgrade. Quasi mai ci ricordiamo che il prezzo da pagare per quella comunicazione è il cedimento del nostro margine di autodeterminazione. E quasi sempre dimentichiamo che questo servizio, teoricamente rivolto al nostro interesse, di fatto alimenta i margini della banca e non il nostro benessere economico.
La parte più oscurata del modello economico è la cessione dei dati a terzi. Compagnie assicurative, società energetiche, operatori telefonici e persino categorie insospettabili come aziende agricole o di catering sono destinatarie delle informazioni bancarie, trasformate in previsioni commerciali da monetizzare. Gabanelli ricorda che mentre Google e Meta ci offrono almeno l’illusione di un servizio “gratuito” in cambio della profilazione, le banche non ci regalano nulla: conti correnti sempre più onerosi, commissioni su ogni operazione, interessi elevati sui prestiti e zero sul denaro depositato. Eppure, proprio quei dati che le nostre spese generano alimentano i profitti bancari e sostengono l’automazione interna che riduce il personale e chiude sportelli fisici, diminuendo i costi del sistema mentre il costo per noi cresce.
Il Gdpr dovrebbe proteggerci, ma la norma sul legittimo interesse ribalta la situazione: anche se rifiutiamo il consenso per profilazione e marketing, la banca può usare i nostri dati quando ritiene che i propri interessi prevalgano sui nostri. Ed è qui che la asimmetria di potere emerge: noi possiamo solo scrivere, chiedere, opporci, aspettare, sperare. La banca decide.
L’informativa non è una garanzia, ma un muro di testo deliberatamente inaccessibile. Il cittadino dovrebbe comprendere clausole come “analisi per definire strategie e politiche ESG secondo TCFD e PRB”, mentre la banca si limita a spuntare acquisizioni di dati sempre più invasive, nascondendole dietro un linguaggio che non racconta ma occulta.
Milena Gabanelli in Dataroom racconta casi concreti: moduli precompilati con tutte le autorizzazioni già flaggate e pressioni per ottenere la profilazione come condizione implicita per accedere a un mutuo. È l’esempio perfetto del diritto svuotato di sostanza: se l’unico modo di esercitare la libertà è accettare ciò che non vogliamo, quella non è libertà, è dipendenza da un soggetto che detiene un potere informativo totale.
Nel 2023 le banche italiane hanno superato 28 miliardi di utili, un risultato favorito dall’aumento dei tassi sui mutui e dalla scelta di non remunerare i depositi, come viene documentato da Dataroom e dai dati della Fabi. In questo quadro, i nostri dati sono un moltiplicatore di profitti: zero remunerazione per noi, mille opportunità per loro.
Se i 48,1 milioni di conti correnti italiani generano dati usati per alimentare l’intelligenza artificiale bancaria che taglia costi e moltiplica i margini, allora una parte di quel valore deve tornare ai cittadini. La proposta di Gabanelli non è utopica: le istituzioni potrebbero imporre un taglio alle commissioni per tutti coloro che autorizzano l’uso dei propri dati in modo intensivo. Il dividendo dei dati non sarebbe un regalo, ma un diritto economico.
Secondo l’inchiesta, spetta alla Banca d’Italia quantificare i benefici economici derivanti dalla monetizzazione dei nostri dati e ribilanciare la distribuzione del valore. Se i dati sono materia prima, e noi siamo i produttori, non è più accettabile che il ritorno sia zero. Il modello attuale è insostenibile: paghiamo il conto, paghiamo le spese, paghiamo con i dati. Il sistema deve cambiare.