l buoni pasto spettano a tutti i dipendenti pubblici il cui orario di lavoro supera le sei ore e che hanno diritto alla pausa pranzo: a stabilirlo č stata la Corte di Cassazione con la recente sentenza n.25525
L’attribuzione dei buoni pasto nel settore pubblico è stata a lungo oggetto di controversia e interpretazioni diverse, soprattutto nei contesti organizzativi più complessi come quello sanitario. La recente ordinanza della Cassazione, n. 25525/2025, rappresenta un punto di svolta nella disciplina dei diritti dei dipendenti pubblici allo strumento del buono pasto, ponendo le basi per una maggiore uniformità e trasparenza nelle modalità di riconoscimento di questo beneficio.
Il sistema dei buoni pasto nel pubblico impiego trae origine sia dal quadro normativo generale che dalla contrattazione collettiva nazionale. La funzione principale di questo strumento non è di natura retributiva, ma assistenziale: i buoni pasto sono destinati a garantire il benessere fisico dei lavoratori pubblici durante la giornata lavorativa, permettendo la consumazione di un pasto adeguato quando l’attività si protrae per molte ore consecutive.
La finalità è favorire il recupero delle energie psicofisiche, migliorando la produttività e tutelando la salute dei dipendenti.
Le regole di attribuzione sono da sempre oggetto di numerose controversie, soprattutto per quanto riguarda i lavoratori turnisti e quelli impegnati in attività che non consentono una ordinaria pausa pranzo. La disciplina attuale impone agli enti di assicurare tale diritto ogniqualvolta la durata della prestazione lavorativa ecceda le sei ore, senza distinzioni basate sulla tipologia di turno o sull’organizzazione interna dei servizi.
| Riferimenti normativi principali | Ambito di applicazione |
| Art. 8 D.Lgs. 66/2003 | Pausa pranzo oltre le sei ore per tutti i lavoratori pubblici |
| Art. 29 CCNL comparto sanità 2001 | Diritto mensa/alternativa buono pasto |
La sentenza n. 25525/2025 della Corte di Cassazione ha di recente stabilito che i buoni pasto spettano a tutti i dipendenti pubblici, anche non turnisti, il cui orario di lavoro superi le sei ore e che hanno diritto alla pausa pranzo.
Secondo quanto spiegato dai giudici, essendo il buono pasto un’agevolazione strettamente connessa alla necessità di effettuare una pausa pranzo, il diritto scatta ogni volta che la prestazione lavorativa giornaliera superi le sei ore. Pertanto, se un dipendente pubblico lavora per più di sei ore in un giorno e il suo contratto gli riconosce il diritto a una pausa per il pranzo, allora ha anche diritto a ricevere il buono.
Fino a poco tempo fa, molte amministrazioni pubbliche tendevano a limitare il beneficio a chi svolgeva orari spezzati o lavorava su turni non continuativi, escludendo invece infermieri, medici e tecnici con orari prolungati e privi di pausa formale.
La vertenza all’esame della Cassazione riguardava proprio alcune figure professionali sanitarie che, a causa dell’organizzazione del servizio, non riuscivano ad accedere in modo tradizionale alla mensa, nonostante l’orario giornaliero ben superiore alle sei ore. La Corte ha affermato:
L’aspetto chiave della sentenza è la definizione dei requisiti per il diritto alla pausa pranzo e al relativo buono pasto nel settore pubblico. Secondo la normativa vigente, la pausa si rende obbligatoria e “qualificante” ai fini del diritto all’agevolazione, quando le ore di lavoro consecutive superano la soglia minima di sei.
Molte amministrazioni pubbliche fino ad oggi hanno differenziato fra personale turnista e non turnista nella concessione dei buoni pasto, sostenendo che solo chi svolgeva orario spezzato potesse legittimamente fruire del beneficio.
La decisione della Cassazione pone termine a questa distinzione, stabilendo alcuni punti fermi: