Arrivare al ruolo di amministratore delegato in Italia è quasi sempre il risultato di una carriera costruita per gradi, raramente interrotta o deviante.
Il dato che salta subito all'occhio è l'età media dei CEO italiani, stabilmente sopra i 60 anni, un valore tra i più alti in Europa, a conferma della scarsa propensione del nostro sistema economico al rinnovamento generazionale nei vertici aziendali. Nella maggior parte dei casi si tratta di dirigenti con lunghe carriere alle spalle, spesso iniziate nel secolo scorso e consolidate in decenni di permanenza all'interno di aziende dello stesso gruppo o dello stesso settore.
La scarsità di figure under 50 ai vertici del sistema produttivo nazionale significa che il rinnovamento è ancora percepito come un rischio più che come un'opportunità. Il discorso cambia solo in parte nel mondo delle startup e delle imprese tecnologiche, dove l'età media dei leader scende ma si tratta ancora di nicchie marginali rispetto al volume d'affari delle grandi aziende italiane.
Ancora più marcato è lo squilibrio di genere: solo il 4% dei CEO italiani è donna. Le ragioni vanno ricercate in un sistema culturale che continua a premiare percorsi professionali maschili e a ostacolare, più o meno direttamente, l'accesso delle donne ai vertici delle imprese. Nonostante i passi avanti fatti nei consigli di amministrazione grazie alle quote di genere, il ruolo operativo dell'amministratore delegato resta in mani maschili, con poche eccezioni illustri come Cristina Scocchia di Illycaffè. Vediamo quindi;
Questi percorsi accademici sono un passaporto sociale per accedere ai ruoli più ambiti, grazie alla rete di contatti, al prestigio del titolo e alla capacità di interpretare dinamiche manageriali globali. Questo impianto formativo tende ad essere omogeneo, anche stereotipato, e poco aperto alla diversità dei background. I CEO italiani si assomigliano molto, non solo per la carriera, ma anche per il percorso scolastico che li ha portati a guidare aziende nazionali e multinazionali.
Non è raro trovare tra i CEO figure con doppia formazione: accanto alla laurea economica, si affiancano corsi di specializzazione in finanza aziendale, gestione delle risorse umane o marketing strategico. La capacità di aggiornarsi continuamente, anche dopo i 50 anni, è considerata oggi una qualità imprescindibile, soprattutto per tenere il passo con i cambiamenti tecnologici e culturali che stanno trasformando il mondo delle imprese.
Arrivare al ruolo di amministratore delegato in Italia è quasi sempre il risultato di una carriera costruita per gradi, raramente interrotta o deviante. L'ascensione è progressiva, solida, segnata da tappe nei dipartimenti finanziari, nel marketing strategico o nella gestione operativa. I CEO italiani non sono improvvisati: conoscono i bilanci, le dinamiche produttive, la gestione del personale. Molti di loro hanno iniziato come junior analyst, product manager o controller, per poi farsi largo, un incarico dopo l'altro, fino al gradino più alto.
La mobilità settoriale non è elevata: chi lavora nel bancario tende a restare nel mondo bancario, chi viene dalla manifattura raramente cambia ambito. Le eccezioni non mancano, e anzi si fanno sempre più interessanti: basti pensare a manager come Antonio Baravalle, passato dalla consulenza strategica a Diageo, poi a Fiat e infine a Lavazza, o come Dario Scannapieco, che ha attraversato ministeri, investimenti pubblici e istituzioni europee prima di arrivare alla Cassa Depositi e Prestiti.
La componente relazionale è altrettanto determinante: la rete di contatti con ambienti istituzionali, accademici e finanziari resta una delle leve per accedere ai board e ottenere nomine strategiche. Non a caso, molti CEO italiani sono anche membri di consigli di amministrazione di altre società, advisor di fondazioni o speaker ricorrenti in eventi di alto profilo.