Tra le cause della disaffezione verso il lavoro nei Comuni c' il nodo delle retribuzioni. Chi lavora negli enti locali guadagna meno dei colleghi di pari livello.
Se un tempo l'impiego comunale era una delle scelte più ambite tra i giovani alla ricerca di stabilità e riconoscimento, oggi questa realtà è mutata. I numeri parlano chiaro: lavorare in Comune è diventato sempre meno attrattivo, e a certificarlo non sono solo le percezioni individuali, ma una mole di dati che raccontano il lento declino del personale negli enti locali.
Il Ministero dell'Interno, insieme a Ifel ha pubblicato un rapporto dettagliato che fotografa la condizione dei lavoratori comunali in Italia. In 15 anni i Comuni hanno perso quasi il 30% della loro forza lavoro, e la tendenza non accenna a fermarsi. Anzi, negli ultimi anni, le dimissioni volontarie hanno superato i pensionamenti, segnale di una crisi di fiducia verso un sistema che non riesce più a trattenere né ad attrarre competenze. Vogliamo vedere:
Ma il dato più sorprendente riguarda la natura di queste uscite. Fino a pochi anni fa, la contrazione del personale poteva essere imputata principalmente ai pensionamenti naturali. A partire dal 2017, la curva si è invertita: chi lascia lo fa sempre più spesso per scelta personale, e non perché raggiunge l'età pensionabile. Sono quasi 96.000 le persone che, in 7 anni, hanno deciso di dimettersi da un impiego comunale, optando per altre strade professionali, talvolta all'interno della stessa pubblica amministrazione, più spesso nel settore privato.
A determinare questo trend è un insieme di fattori che, combinati, rendono il lavoro comunale sempre meno sostenibile: carichi di lavoro crescenti, mancanza di riconoscimento, condizioni economiche sfavorevoli, poche possibilità di crescita e un ambiente spesso percepito come statico e burocratico. Chi resta, si ritrova a dover sopperire all'assenza di colleghi, portando avanti gli stessi compiti (e in alcuni casi anche di più) con risorse umane ed economiche sempre più limitate.
Tra le cause della disaffezione verso il lavoro nei Comuni c'è il nodo delle retribuzioni. Chi lavora negli enti locali guadagna meno dei colleghi di pari livello occupazionale in altri comparti della pubblica amministrazione. Questo divario è documentato in modo puntuale dal rapporto Ifel.
Un funzionario comunale ha ad esempio una retribuzione media annua lorda pari a 36.872 euro. Lo stesso profilo, se impiegato in un'agenzia fiscale, arriva invece a percepire 44.124 euro. La differenza è evidente: oltre 7.000 euro in meno all'anno, a fronte di responsabilità simili e persino maggiori.
La situazione non migliora salendo di livello. I dirigenti comunali percepiscono in media 101.374 euro all'anno, mentre nei ministeri la retribuzione media si attesta a 111.206 euro, e nelle Regioni si sale ulteriormente fino a 113.422 euro. Uno scarto che si traduce in migliaia di euro all'anno, in un contesto in cui la qualità del lavoro richiesto e il peso delle responsabilità risultano spesso uguali, se non più gravosi, per i dirigenti locali.
La questione salariale non esaurisce le criticità. A pesare sul clima interno degli enti locali è la quasi totale assenza di percorsi di formazione e crescita professionale. Appena il 12,9% dei Comuni italiani può contare su un ufficio dedicato alla formazione del personale. Nei Comuni più piccoli a situazione è ancora più critica: l'82,5% non possiede alcun piano formativo.
E quando la formazione esiste, è frammentaria, poco strutturata e spesso affidata a soggetti esterni, con costi maggiori e risultati incerti. Il 53,6% dei corsi di aggiornamento è gestito da enti privati, mentre solo il 4,2% è organizzato direttamente dagli uffici comunali. La conseguenza è che i dipendenti, privi di una visione di carriera e di strumenti di aggiornamento continui, si sentono lasciati soli, costretti ad arrangiarsi o a stagnare professionalmente.