Il punto centrale della decisione risiede nella decostruzione della teoria del concorso di colpa della vittima.
Con l'ordinanza 13844 del 2025, la Corte di Cassazione ha raccolto il ricorso presentato dagli eredi di una donna morta di tumore ai polmoni, fumatrici per 30 anni di un pacchetto al giorno. Questa sentenza segna l'inizio di una nuova epoca in cui la responsabilità dei produttori di sigarette viene rimessa al centro del dibattito giuridico e sociale. Il principio cardine su cui si fonda la decisione è la presunzione del nesso causale tra l'attività produttiva e la malattia, salvo prova contraria da parte del produttore. Viene così incrinato l'assunto secondo cui fumare è una scelta consapevole e autonoma dell'individuo, soprattutto quando l'abitudine si è formata in un'epoca storica in cui la consapevolezza dei rischi non era diffusa. Approfondiamo la questione:
Nel 1965, anno in cui la donna cominciò a fumare, non era ancora maturata a livello sociale e giuridico una consapevolezza diffusa e condivisa sul legame diretto tra sigarette e cancro. Si trattava di un'epoca in cui la pubblicità del tabacco era onnipresente, lo Stato non imponeva limiti all'informazione sanitaria e la percezione pubblica non era ancora strutturata attorno alla pericolosità dell'atto del fumare. In questo quadro, secondo la Suprema Corte, esisteva una asimmetria informativa, in cui le aziende produttrici disponevano di dati scientifici non accessibili al pubblico.
Uno degli aspetti più innovativi della sentenza è la classificazione dell'attività delle aziende del tabacco come attività pericolosa, ai sensi dell'articolo 2050 del Codice Civile. Questo comporta uno spostamento dell'onere probatorio: non è più la vittima, o i suoi eredi, a dover dimostrare il nesso di causalità, ma è l'impresa produttrice a dover provare di aver adottato ogni misura idonea ad evitare il danno.
Il principio ha un peso decisivo, perché rende difficile per le aziende dimostrare di aver assolto a obblighi informativi e preventivi, soprattutto in un'epoca in cui tali obblighi non erano codificati dalla legge. La sentenza evidenzia che il solo fatto di aver prodotto sigarette con filtri o con una minor percentuale di catrame non è sufficiente, se non accompagnato da una strategia di comunicazione sui rischi sanitari. L'adozione di misure tecniche, per quanto utili, non esonera il produttore dalla responsabilità derivante dal mancato avvertimento sistematico e anticipato ai consumatori. La Suprema Corte sottolinea inoltre che la prova della colpa non può basarsi su presunzioni astratte, ma richiede un accertamento concreto delle condotte preventive messe in atto.
Questa sentenza si colloca all'interno di un contesto normativo che, per decenni, ha mostrato gravi lacune nella tutela della salute pubblica contro il tabagismo. Solo nel 1975 è stato introdotto un primo divieto di fumo in alcuni locali pubblici e mezzi di trasporto, mentre il bando alla pubblicità dei prodotti da fumo è arrivato nel 1983. Ancora più tardi, nel 1991, è stata vietata anche la pubblicità indiretta televisiva, e solo nel 2003 si è cominciato a parlare di etichette di avvertimento e di responsabilità preventiva.
In pratica milioni di italiani hanno fumato per decenni senza ricevere informazioni sulle conseguenze del consumo di tabacco. L'ordinanza della Cassazione riconosce che questa inerzia istituzionale ha contribuito alla diffusione del fenomeno, ma afferma che non può giustificare l'esonero di responsabilità delle imprese.