I concorsi universitari in Italia sono oggetto di polemiche per presunti favoritismi. Cerchiamo di capire come stanno davvero le cose in base a dati, testimonianze e impatto sui giovani, esplorando cause e soluzioni per un sistema più equo e trasparente.
L’università italiana si trova al centro di un acceso dibattito a causa delle frequenti accuse di irregolarità nei processi di selezione per docenti e ricercatori. Episodi di presunto favoritismo, denunce di bandi «su misura» e polemiche sulle procedure alimentano il sospetto di un sistema a mobilità bloccata, che fatica a premiare il talento e la competenza. Personalità autorevoli del mondo accademico e figure istituzionali hanno portato all’attenzione nazionale il tema dell’affidabilità del sistema di selezione, sollevando l’urgenza di riforme per restituire credibilità e fiducia agli atenei.
Le recenti dichiarazioni di figure di spicco come Andrea Crisanti, microbiologo e senatore, hanno acceso i riflettori su pratiche che sembrerebbero consolidate nel tempo. Crisanti ha affermato: «In quarant’anni non conosco un solo concorso in Italia di cui non si sapesse prima il vincitore». Le sue parole hanno rappresentato lo spunto per una più ampia analisi fatta di testimonianze, numeri e casi documentati dalla magistratura.
Non mancano però contro-testimonianze nel mondo accademico. Diversi professori, come il presidente di decine di commissioni presso l’Università di Bologna, hanno sottolineato che non in tutti i casi il risultato è scontato e che esistono esempi di selezione autenticamente competitiva. Tuttavia, anche tra chi difende la regolarità della maggior parte delle procedure, si riconoscono criticità strutturali che limitano la reale apertura delle selezioni, tra cui la scarsa mobilità tra atenei e la tendenza a valorizzare percorsi interni rispetto a candidature esterne.
Numerose inchieste della magistratura – come quelle che coinvolgono atenei da Milano a Palermo, fino a casi eclatanti avvenuti a Bari, Genova, Firenze e Napoli – hanno messo in luce metodi di cooptazione, scambio di favori e pilotaggio delle procedure. Per esempio, nell’indagine sulla facoltà di Giurisprudenza di Bari, 22 professori sono stati accusati di aver predefinito i vincitori delle posizioni accademiche. Concorda il procuratore Cantone, ex ANAC, denunciando una cultura dell’impunità e pratiche che costringono anche i docenti più meritevoli a sottoporsi a «pratiche umilianti» per ottenere un avanzamento di carriera.
Non mancano casi di archiviazione: le modifiche legislative infatti hanno complicato le possibilità di perseguire penalmente i responsabili, accentuando la percezione sociale di una diffusa impunità. Testimonianze di giovani ricercatori esclusi o penalizzati nei processi di selezione alimentano ulteriormente la sfiducia nei confronti dei meccanismi di reclutamento. Secondo i dati raccolti dall’associazione “Trasparenza e merito”, in pochi anni sono state registrate oltre 4.400 segnalazioni di concorsi sospetti o irregolari, anche se solo un quarto si è trasformato in esposti o ricorsi.
La narrazione di «concorsi già fatti», pur senza rappresentare con certezza la totalità delle selezioni, rimane un elemento ricorrente e testimonia la profondità del problema percepito.
L’attuale configurazione dei processi di selezione ha contribuito in modo determinante a fenomeni di rilievo che riguardano l’efficacia e l’inclusività del sistema universitario italiano:
Il quadro giuridico relativo alle irregolarità nei concorsi accademici si è negli ultimi anni radicalmente modificato, accentuando la percezione di un vuoto di tutela. Sino al 2024, i reati più utilizzati dai magistrati per perseguire le manipolazioni nei concorsi erano l’abuso d’ufficio e la turbativa d’asta. Una sentenza della Cassazione del 2023 ha però chiarito che la turbativa d’asta non si applica alle procedure di selezione accademica, restringendo le possibilità di intervento penale.
Con l’entrata in vigore della riforma della giustizia (cosiddetta «riforma Nordio») nell’agosto 2024, è stato completamente abrogato il reato di abuso d’ufficio. Le inchieste avviate presso numerosi tribunali – come Firenze, Catania, Genova – si sono trovate prive degli strumenti normativi necessari a perseguire condotte di cooptazione, favori e violazione dei principi di imparzialità. L’esempio del processo su aziende ospedaliere Meyer e Careggi, dove i giudici hanno dichiarato che determinate pratiche rimangono ormai «prive di sanzione penale», è estremamente emblematico.
Resta la possibilità di ricorrere alla giustizia amministrativa, ad esempio tramite il TAR, ma questa via si limita a un controllo formale e, in caso di accoglimento del ricorso, comporta solo l’annullamento del concorso con la ripetizione della selezione, senza conseguenze penali per i responsabili. Le testimonianze di rappresentanti di associazioni come “Trasparenza e merito” evidenziano un senso di impotenza e disillusione tra chi denuncia: numerosi esposti finiscono archiviati e anche prove apparentemente solide vengono neutralizzate dall’interpretazione delle normative.
In tale contesto, la fiducia nello Stato e nella capacità di garantire competizione trasparente e imparziale viene seriamente compromessa, lasciando come uniche tutele la responsabilità morale interna agli atenei e la mobilitazione dell’opinione pubblica.
All’origine delle criticità riscontrate negli atenei italiani si individuano fattori storicamente radicati nell’organizzazione universitaria e nelle prassi gestionali. I fenomeni di nepotismo e clientelismo continuano a incidere sulla scelta del personale accademico, con network di relazione familiari, dipartimentali o personali che orientano la formazione delle commissioni e la definizione dei bandi.
La scarsa attitudine alla mobilità e una cultura accademica fortemente autoreferenziale rafforzano la continuità delle pratiche esistenti, limitando l’apertura verso il confronto internazionale e il rinnovamento generazionale. L’analisi comparata con realtà estere mostra che, in contesti dove è favorita la mobilità, anche tramite incentivi finanziari e scambi tra atenei, si sviluppano modelli più dinamici e meritocratici.
Un altro elemento spesso denunciato riguarda l’eccessiva burocrazia e la mancanza di valutazione oggettiva dei risultati didattici e scientifici. Strumenti come l’H-index, pur controversi, sono facilmente manipolabili in assenza di standard internazionali condivisi, sollevando dubbi sulla reale efficacia dei criteri di selezione.
Queste cause strutturali contribuiscono, nel tempo, a un generale immobilismo istituzionale, rendendo difficile adattarsi alle nuove esigenze della comunità scientifica globale e offrire reali opportunità ai giovani talenti.
La discussione sulle strategie di cambiamento si è progressivamente allargata, grazie anche al confronto con esperienze internazionali più avanzate. Tra gli interventi considerati tra i più efficaci per aumentare trasparenza e meritocrazia si segnalano:
Questo scenario complesso, delineato da dati concreti e testimonianze documentate, suggerisce che il recupero della fiducia nel sistema universitario dipende da una volontà reale di superare pratiche opache e di investire nei giovani e nel merito. Restituire centralità a trasparenza, competenza e autorevolezza significa soprattutto evitare che la rassegnazione si trasformi in norma e che il talento, vero motore del progresso collettivo, continui a migrare altrove.
L’università italiana può riconquistare centralità e reputazione solo se saprà adottare soluzioni innovative e valorizzare l’esperienza maturata sia nelle eccellenze interne sia guardando alle migliori pratiche estere. Solo una riforma coraggiosa e condivisa restituirà ai giovani l’idea che l’impegno viene premiato e garantirà all’accademia di continuare a essere motore autorevole di sviluppo culturale, scientifico e civile.