Le imprese italiane sono in crisi: nel primo semestre di quest’anno sono aumentate del 29%. La situazione attuale
L’economia italiana si trova al centro di una tempesta, caratterizzata da tensioni geopolitiche, aumenti nei costi dell’energia e un calo degli investimenti produttivi. Il quadro del primo semestre 2025 restituisce una fotografia preoccupante: in questo periodo, il numero di imprese interessate da procedure di crisi è aumentato in maniera significativa. E si tratta di un segnale d’allarme importante.
Il primo semestre 2025 segna un incremento del 29% nelle procedure di crisi rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, secondo le rilevazioni dell’Osservatorio crisi d’impresa di Unioncamere-InfoCamere. Nel dettaglio, sono state avviate quasi 7.200 procedure concorsuali nei primi sei mesi dell’anno, mostrando un trend che, se confermato nei mesi successivi, porterebbe a oltre 14.000 casi entro fine anno. Rispetto al 2022 si registra un’impennata del 61%, elemento che sottolinea la straordinarietà della fase attuale.
La procedura di liquidazione giudiziale si è affermata come strumento più comune per la gestione delle situazioni aziendali più fragili, in particolare fra le piccole e medie imprese. Secondo Unioncamere, l’adozione di questo iter risulta in forte aumento, dato che riflette un tessuto imprenditoriale messo sempre più sotto pressione da fattori esterni e interni.
L’incremento delle crisi aziendali emerso nel primo semestre 2025 trova origine in una serie di fattori, spesso correlati e difficilmente prevedibili. Gli effetti delle tensioni geopolitiche, conflitti ancora aperti e maggiori barriere commerciali, hanno innalzato il rischio e l’incertezza nelle catene di fornitura, penalizzando in particolare le aziende esposte all’export o che dipendono da approvvigionamenti internazionali.
Il caro energia continua a impattare pesantemente sui bilanci, sia per le imprese a elevata intensità energetica sia per quelle minori, limitando la competitività e l’operatività dei comparti più esposti.
Parallelamente si osserva un contributo negativo dato dalla riduzione degli investimenti: dopo il boom post-pandemico, le immobilizzazioni materiali delle società non quotate hanno subito una contrazione dell’1,3% nel 2024, tornando sotto i livelli del 2020. Il calo coinvolge soprattutto gli impianti produttivi e riflette un clima di sfiducia verso il futuro, compromettendo la capacità delle aziende di rinnovarsi e cogliere le opportunità di crescita.
Non tutte le realtà produttive sono coinvolte con la stessa intensità dalla crisi in corso. L’analisi evidenzia una particolare vulnerabilità per l’industria manifatturiera e l’automotive, dove il 2025 si preannuncia difficile a causa della diminuzione della domanda, dell’inasprimento delle tariffe internazionali e della transizione energetica in rallentamento. Nel settore automobilistico, il calo delle immatricolazioni e la crescita modesta dei veicoli a basse emissioni si riflettono negativamente sull’intera filiera, comprese le aziende legate all’indotto.
L’industria delle energie rinnovabili mostra segnali di debolezza, con una contrazione del 29% nel secondo trimestre per la componente impiantistica e una crescente incertezza sugli investimenti nei progetti FER (Fonti Energetiche Rinnovabili). Il comparto farmaceutico e quello dei beni industriali risultano penalizzati dall’aumento delle barriere commerciali e dalle difficoltà nell’adeguarsi a rapide modifiche normative.
Tra le PMI, le criticità maggiori riguardano le imprese di dimensioni minori e con patrimonio limitato, che dispongono di minori riserve per assorbire shock di mercato e sono più esposte ai rincari e alla rigidità dei mercati finanziari.
Una sintesi delle situazioni più a rischio:
L’impennata di procedure concorsuali rilevate nel primo semestre 2025 coinvolge in larga parte le PMI, che rappresentano il tessuto produttivo maggiormente sensibile ai cambiamenti di scenario. La liquidazione giudiziale si è consolidata come il principale strumento di gestione delle difficoltà insormontabili, soprattutto per imprese incapaci di avviare tempestivamente processi di ristrutturazione.
Accanto a questa, si assiste a un utilizzo crescente di altre forme di composizione negoziata, nate anche in conseguenza delle modifiche normative introdotte dal nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Tali strumenti, se correttamente attivati, possono favorire la prevenzione della crisi e la continuità aziendale, tutelando sia i lavoratori che i creditori.
La ridotta cultura manageriale in ambito finanziario, assieme all’assenza di sistemi di allerta efficaci e processi di monitoraggio tempestivi, impedisce però a molte PMI di attivare soluzioni di risanamento in modo proattivo. Questo determina un maggior ricorso allo strumento liquidatorio, con conseguenze negative su occupazione e catena dei fornitori.
L’instabilità che domina il panorama delle imprese italiane si inserisce in una congiuntura globale segnata dall’aumento del debito pubblico dei principali Paesi OCSE, previsto a 59 trilioni di dollari nel 2025, pari a circa l’85% del PIL, e dalla tendenza al rialzo dei tassi di interesse.
Questo scenario produce effetti diretti sia sui costi di finanziamento aziendale sia sulle valutazioni di mercato, in particolare per operazioni straordinarie e M&A. Il confronto con il periodo pre-pandemico evidenzia una crescita della volatilità e dell’avversione al rischio tra investitori e finanziatori, che si traduce in una maggiore selettività nell’erogazione dei crediti e nella preferenza verso business modellati su resilienza ed efficienza.
L’aumento del costo del capitale penalizza soprattutto le realtà con basso rating creditizio, che si trovano a fronteggiare condizioni di mercato avverse senza riserve e strumenti strutturati di gestione della liquidità.