La Corte di Cassazione ha chiarito un aspetto della vita lavorativa: non ogni registrazione è un abuso, non ogni difesa è una violazione.
È lecito registrare un collega sul posto di lavoro per tutelare sé stessi? La risposta è arrivata con una sentenza della Corte di Cassazione - la 5844 del 2025 - che ha fatto luce su un tema rimasto in una zona grigia tra privacy e diritto alla difesa. Un verdetto che è un punto di riferimento per comprendere quando la registrazione tra presenti diventa uno strumento valido per proteggere i propri diritti, senza cadere nell'illiceità:
La Corte di Cassazione ha deciso di ribaltare la ricostruzione. Secondo i giudici della Suprema Corte, la registrazione di una conversazione alla quale si partecipa è lecita, se finalizzata a difendere un proprio diritto in sede giudiziaria. Si tratta della riaffermazione del principio di diritto alla difesa che può prevalere sulla riservatezza altrui.
A fondamento della pronuncia della Cassazione c'è il Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali, secondo cui il trattamento è ammesso qualora sia necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria oppure quando le autorità giurisdizionali agiscono nell'ambito delle loro funzioni. In altre parole, non è richiesto il consenso della persona registrata se lo scopo della registrazione è collegato a una strategia difensiva, e se il suo utilizzo è circoscritto all'ambito del procedimento in corso.
Questo principio trova ora applicazione anche nei contesti disciplinari interni alle professioni. Il diritto alla difesa assume una valenza costituzionalmente garantita, e viene riconosciuto come prevalente, a patto che chi registra sia parte attiva della conversazione, e che l'atto non sia motivato da finalità diverse da quelle giudiziarie. Non è dunque lecito registrare conversazioni tra terzi, né ambienti in cui non si è presenti: in quei casi, si parlerebbe di intercettazione ambientale non autorizzata, con conseguenze civili e penali rilevanti.
La sentenza specifica che la registrazione deve essere mirata, limitata e coerente con l'obiettivo difensivo, non può essere diffusa, condivisa o archiviata per scopi diversi da quello per cui è stata prodotta. Solo così si mantiene la proporzione tra diritto leso e mezzo di autotutela utilizzato.
Con questa sentenza, la Corte di Cassazione ha chiarito un aspetto della vita lavorativa quotidiana: non ogni registrazione è un abuso, non ogni difesa è una violazione. In contesti sempre più esposti al rischio di sanzioni, contestazioni, mobbing o comportamenti discriminatori, molti lavoratori si trovano in una posizione debole, con difficoltà nel raccogliere prove concrete a propria discolpa.
Questa possibilità non si traduce in un permesso illimitato di registrare tutto e tutti. La liceità è subordinata alla presenza della persona che registra nella conversazione, e alla dimostrabile necessità del contenuto registrato per esercitare un diritto concreto in sede giudiziaria o disciplinare. Se, ad esempio, un lavoratore è oggetto di accuse infondate e durante un colloquio riceve minacce, pressioni o ammissioni verbali che possono essere rilevanti ai fini della sua difesa, la registrazione effettuata in quel contesto è utilizzabile e legittima.