Tradurre 22,3 miliardi di dollari di gettito mancato in conseguenze concrete è il solo modo per capire la portata del fenomeno che coinvolge le multinazionali operanti in Italia.
Le multinazionali che operano in Italia non evadono nel senso classico, ma sfruttano gli spazi delle norme per pagare le tasse altrove. Il risultato, però, per i conti pubblici italiani è lo stesso: miliardi che mancano all'appello, anno dopo anno. Un nuovo approfondimento di Milena Gabanelli e Francesco Tortora per Dataroom - Corriere della Sera calcola uanto denaro sfugge al fisco dei grandi Paesi, Italia compresa, a causa della cosiddetta pianificazione fiscale aggressiva delle multinazionali.
Nel loro lavoro, Gabanelli e Tortora partono da un dato di base: ogni anno le multinazionali di tutto il mondo spostano in media 1.100 miliardi di dollari di profitti verso Paesi che offrono tassazione ultra agevolata e opacità societaria. Si tratta di circa il 16% dei loro utili complessivi, cioè una fetta enorme della ricchezza prodotta che sfugge alle casse degli Stati in cui quella ricchezza è stata generata.
Questo flusso non è episodico ma strutturale. Secondo l'ultimo rapporto del Tax Justice Network, citato da Dataroom, tra il 2016 e il 2021 le multinazionali hanno trasferito in giurisdizioni a bassa tassazione circa 6.550 miliardi di dollari di profitti, con un impatto diretto sul gettito: 1.717 miliardi di dollari di entrate fiscali evaporate in sei anni. In testa alla classifica delle perdite ci sono le corporation statunitensi, responsabili da sole di 495 miliardi di minori entrate fiscali a livello globale.
Il motore di questa sottrazione di gettito è il transfer pricing gestito in modo aggressivo. In pratica, una multinazionale che opera in diversi Paesi decide dove far comparire gli utili sulla carta, giocando sui prezzi interni del gruppo. L'articolo di Dataroom descrive un caso-tipo: la multinazionale americana con filiali in Stati ad alta tassazione (come Italia o Francia) gonfia i costi delle controllate con fatture per brevetti, marchi, servizi o beni immateriali provenienti da una società del gruppo insediata in un Paese “amico” dal punto di vista fiscale, come il Lussemburgo.
Così la filiale italiana vede ridursi gli utili imponibili, quindi le tasse da versare al fisco nazionale, mentre i profitti veri si accumulano nella controllata con sede in un paradiso o semi-paradiso fiscale, dove le aliquote sono bassissime o quasi azzerate. Il risultato è che, pur vendendo e guadagnando in Italia, la multinazionale paga gran parte delle imposte altrove con aliquote di fatto irrisorie.
Il pezzo di Gabanelli non si limita a denunciare genericamente i paradisi fiscali esotici nei Caraibi: la fotografia che emerge è molto più scomoda perché individua come protagonisti Paesi perfettamente integrati nel sistema economico occidentale, spesso all'interno della stessa Unione europea.
Nel dossier vengono citati, tra gli altri, Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Malta e Cipro come veri e propri paradisi fiscali interni alla Ue. In questi Stati, pur esistendo aliquote nominali non sempre bassissime, il sistema di agevolazioni, regimi speciali e trattamenti ad hoc porta molte holding a pagare in concreto imposte effettive molto inferiori all'aliquota ufficiale.
Il caso Lussemburgo è emblematico: è la seconda piazza finanziaria al mondo per fondi di investimento, ospita 115 banche internazionali e le sedi di grandi multinazionali come ArcelorMittal, Amazon, Spotify e la holding Aylo (colosso mondiale del porno online). Qui l'aliquota nominale sulle società è intorno al 23,87%, ma per molte holding la tassazione effettiva scende drasticamente, grazie a regimi di favore su royalties, dividendi e interessi. Lo scandalo LuxLeaks nel 2014 ha rivelato accordi segreti tra il fisco lussemburghese e almeno 350 gruppi internazionali, tra cui anche banche e grandi aziende italiane come UniCredit e Intesa Sanpaolo, che in alcuni casi arrivavano a pagare meno dell'1% di tasse sugli utili.
L'Irlanda è un altro snodo centrale: qui hanno fissato il quartier generale europeo colossi come Apple, Microsoft, Meta, Google, Shein e giganti del farmaceutico quali Pfizer ed Eli Lilly. L'aliquota ufficiale sulle società è del 12,5%, una delle più basse d'Europa, ma in passato alcuni schemi di pianificazione fiscale hanno consentito a grandi multinazionali di scendere ancora più in basso. L'articolo ricorda che Apple era arrivata a pagare un'imposta societaria effettiva dello 0,05%, tanto che la Commissione europea ha inflitto al gruppo una maxi-sanzione da 13 miliardi di euro per aiuti di Stato illegittimi.
In questo contesto, l'Unione europea sta provando a reagire introducendo la Global Minimum Tax: una tassa minima globale del 15% per i gruppi con fatturato sopra i 750 milioni di euro, applicabile indipendentemente da dove i profitti sono registrati. Sia Regno Unito che Ue la stanno recependo; per Bruxelles, la prima dichiarazione relativa a questa imposta dovrà essere presentata entro il 30 giugno 2026, e le multinazionali dovranno anche pubblicare ogni anno un report paese per paese con ricavi, utili e imposte versate, per accrescere la trasparenza.
È qui che il ragionamento di Gabanelli entra nel vivo per l'Italia. Utilizzando i calcoli del Tax Justice Network, l'articolo quantifica le perdite di gettito per i principali Paesi europei nel periodo 2016-2021:
Tradurre questi numeri in realtà quotidiana aiuta a capirne il peso. Un flusso di 3-4 miliardi l'anno potrebbe finanziare, per ordine di grandezza, una grande manovra di riduzione del cuneo fiscale, o un rafforzamento strutturale di sanità e scuola, o ancora un piano pluriennale di investimenti in infrastrutture e transizione energetica. Sono soldi che, invece di sostenere ospedali, trasporti pubblici, università e servizi locali, finiscono nei bilanci di Stati che competono sulla fiscalità di vantaggio.
Il paradosso è evidente: l'Italia investe in infrastrutture, capitale umano, mercato interno; le multinazionali incassano profitti grazie a questo ecosistema, ma poi trasferiscono una parte consistente della base imponibile in Paesi a fiscalità più favorevole. Il conto finale resta sui cittadini italiani, che continuano a pagare imposte relativamente elevate mentre lo Stato rinuncia di fatto a una quota di gettito generata dal lavoro, dai consumi e dalla domanda interna del Paese.
La Dataroom spinge anche su un punto politico: la sovranità fiscale dei singoli Stati è messa in discussione da questo sistema. Non si tratta solo di Paesi europei che competono tra loro tirando verso il basso la tassazione delle imprese: a pesare è anche la scelta degli Stati Uniti, che sono diventati essi stessi un grande paradiso fiscale interno grazie a sei Stati (Delaware, Wyoming, New Mexico, Nevada, Alaska e South Dakota) che offrono regimi di anonimato societario e tassazione agevolata.
Il salto di qualità è arrivato con il Tax Cuts and Jobs Act del 2017, che ha ridotto la tassazione federale sui redditi d'impresa dal 35% al 21% e ha previsto uno sconto sul rientro dei profitti accumulati all'estero. Ne hanno approfittato soprattutto le Big Tech, che hanno riportato in patria utili prima parcheggiati tra Lussemburgo, Bermuda, Paesi Bassi e Porto Rico, ma con aliquote effettive anche molto basse: secondo i dati citati dall'articolo, nel 2024 Meta si è trovata a pagare un'aliquota effettiva intorno all'8,4%, contro valori superiori al 33% nel 2016.
Nonostante questo vantaggio per i colossi del digitale, i salari non sono cresciuti in proporzione e l'occupazione non ha conosciuto salti. In compenso, il fisco americano, tra il 2016 e il 2021, ha perso complessivamente 574 miliardi di dollari, quasi la metà dei quali attribuibili alle multinazionali statunitensi. Il Tax Justice Network, richiamato da Gabanelli, arriva a definire gli Stati Uniti una “minaccia alla sovranità fiscale” degli altri Paesi, inclusi loro stessi.
Nel frattempo, la decisione dell'amministrazione Trump di ritirarsi dall'accordo Ocse sulla Global Minimum Tax e di chiamarsi fuori dai negoziati ONU su una convenzione quadro per la cooperazione fiscale internazionale indebolisce il fronte dei Paesi che cercano di introdurre regole comuni contro la concorrenza sleale in campo tributario. A questo si aggiunge la minaccia di dazi contro i Paesi che introducono tasse sul digitale o limiti normativi ai giganti tecnologici statunitensi, una leva di politica economica usata apertamente per scoraggiare iniziative fiscali autonome da parte di Europa e altri Stati.