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Perché i redditi degli italiani sono calati negli ultimi 10 anni? La spiegazione del Pil pro capite con esempi pratici

di Marcello Tansini pubblicato il
La spiegazione del Pil pro capite

Negli ultimi dieci anni l'Italia ha fatto fatica a registrare una crescita del prodotto interno lordo e, conseguentemente, del PIL pro capite.

Il concetto di PIL pro capite costituisce un indicatore centrale per comprendere il perché dei redditi più bassi o stagnanti nel contesto italiano: rappresenta il totale del prodotto interno lordo diviso per la popolazione e dà un'idea di quanta ricchezza media nazionale venga prodotta per ciascun individuo. L'importanza di questa misura non risiede solo nel valore in sé, ma nel suo utilizzo come riferimento per il rapporto tra valore prodotto e remunerazione dei fattori produttivi: se la produzione per abitante cresce poco, anche la capacità di generare redditi da lavoro e da capitale rimane compressa.

Ogni famiglia, ogni lavoratore, si trova a vivere in un'economia in cui la torta disponibile per tutti cresce poco o quasi nulla. Tuttavia, va sottolineato che il PIL pro capite non è identico al reddito individuale: non misura direttamente quanto ognuno guadagna, ma la media di quanto un Paese produce per persona. In aggiunta a questo, esiste un'altra distinzione cruciale: quella tra reddito nominale (la somma di denaro che si percepisce) e reddito reale (cioè quel reddito depurato degli effetti dell'inflazione).

Perché, se il reddito nominale cresce dell'1 % ma i prezzi aumentano del 3 %, il reddito reale in termini di potere d'acquisto è in calo. In Italia, diversi rapporti internazionali segnalano che la produttività del lavoro - e quindi la capacità di generare più valore per ora lavorata - è rimasta stagnante o addirittura in lieve calo.

Evoluzione recente dell'economia italiana

Negli ultimi dieci anni l'Italia ha fatto fatica a registrare una crescita del prodotto interno lordo e, conseguentemente, del PIL pro capite. I dati mostrano che la produttività del lavoro - uno dei motori principali del rendimento economico per lavoratore - è cresciuta poco, compresa sotto all'1% annuo in diversi anni, quando in altri Paesi europei si registravano tassi più elevati. Questa debole crescita produttiva si accompagna a una struttura produttiva caratterizzata da numerose piccole e medie imprese, basso investimento in innovazione, scarsa digitalizzazione e una capacità limitata di scalare su mercati globali. Per fare un esempio pratico: se un lavoratore medio produce un valore aggiunto di 40.000 euro l'anno oggi e tra dieci anni riuscisse a incrementarlo solo del 1% all'anno, quel valore diventerebbe circa 44.000 euro.

Ma se una controparte in Germania o nei Paesi nordici aumenta la propria produttività del 2-3% all'anno nello stesso periodo, raggiungerebbe magari 50.000-55.000 euro. Il divario si allarga. Inoltre, l'Italia deve fronteggiare una popolazione che invecchia e una quota ridotta di persone in età attiva: meno lavoratori attivi per popolazione totale significa che ogni attivo deve sostenere più inattivi, rendendo la crescita per persona più difficile.

Nel mercato del lavoro, contratti part-time involontari, indipendenti deboli, basso grado di sindacalizzazione e bassa mobilità tra settori contribuiscono a frenare i salari e a tenere i redditi medi su livelli stagnanti. Il risultato complessivo è che, pur magari vedendo salari nominali salire, molti lavoratori percepiscono un potere d'acquisto che non cresce o addirittura diminuisce.

Regioni, graduatorie e disparità territoriali: i casi emblematici

È significativo che anche le regioni più sviluppate d'Italia - come la Lombardia, il Veneto o il Piemonte - abbiano perso posizioni nella graduatoria europea del PIL pro capite tra il 1995 e il 2023. In quella ricerca di Maranzano e Romano emerge che la Lombardia è passata dal 17° posto al 42°, il Piemonte dal 43° al 97°, il Veneto dal 37° all'82°, la Toscana dal 52° al 95° e il Lazio dal 27° al 79° nella classifica delle regioni europee.

Questi dati suggeriscono che non è solo una questione del Mezzogiorno, ma di un'intera economia nazionale che perde terreno relativo rispetto ai partner europei. Quando una regione cala nella graduatoria significa che gli investimenti, la produttività, gli stipendi medi e le condizioni di lavoro sono peggiorati o sono cresciuti meno rispetto ad altre regioni. Per il cittadino uomini o donna significa che lo stipendio medio della sua zona può restare stagnante mentre altrove sale; che le opportunità di carriera si riducono; che magari la mobilità locale non compensa.

Così, anche chi vive in regioni ricche subisce effetti indiretti della stagnazione: servizi meno efficienti, pressione fiscale maggiore, costi della vita che aumentano senza contropartita in reddito reale.

Esempi pratici nella vita quotidiana

Immaginiamo una famiglia composta da due lavoratori con redditi medi nella media regionale. Nel 2013 quella famiglia percepiva complessivamente 50.000 € annui nominali, con costi fissi (abitazione, luce, gas, alimenti) standard per quel contesto. Nel 2023 supponiamo che il reddito nominale sia salito a 55.000 € (+10%), ma nello stesso arco i costi obbligati siano aumentati del 15% a causa dell'inflazione, dei rincari energetici e delle tariffe dei servizi. Il risultato è che il reddito reale disponibile è inferiore rispetto a dieci anni prima: meno margine per risparmiare, per investire, per cambiare casa o acquistare beni durevoli.

Un giovane laureato entrato nel mercato nel 2015 con uno stipendio di 28.000 € può oggi percepirne 30.000 €, ma se il costo della vita è aumentato sensibilmente e la sua carriera è bloccata dalla struttura produttiva che non investe abbastanza, quel reddito vale meno in termini di standard di vita rispetto a un suo collega in un altro Paese europeo.

Per un pensionato che percepisce un assegno indicizzato all'inflazione ma la rivalutazione non copre completamente i rincari dei servizi, dell'affitto o dell'assistenza sanitaria privata integrativa, il risultato è una perdita del potere d'acquisto: si vive nominalmente allo stesso livello ma in condizioni peggiori, con più rinunce e meno libertà. Tutti questi esempi mostrano che la frase i redditi sono calati non è solo retorica ma è l'effetto combinato di scarsa crescita del PIL pro capite, inflazione, scarsa produttività e struttura economica poco dinamica.

Quali sono le cause profonde e quali le soluzioni possibili

Se vogliamo andare all'origine del fenomeno dobbiamo guardare ai fattori che frenano la crescita del PIL pro capite e, di conseguenza, la dinamica dei redditi. Il primo è il basso tasso di investimento in tecnologia, digitalizzazione, ricerca e sviluppo: senza crescita della produttività ogni ora lavorata genera poco di più rispetto all'ora precedente. L'Italia si trova tra i Paesi europei con la crescita della produttività più bassa.

Il secondo è la scala delle imprese: un tessuto economico dominato da imprese piccole, spesso poco internazionalizzate e con limitata capacità di innovare, rende il sistema inerziale. Il terzo fattore è la demografia: l'invecchiamento della popolazione, la bassa natalità e la fuga dei giovani qualificati verso l'estero riducono la base attiva, mentre aumentano i costi sociali. Queste cause richiedono riforme strutturali: allentamento della burocrazia, maggiore efficienza della pubblica amministrazione, infrastrutture digitali e fisiche, formazione continua, incentivi all'innovazione e politiche regionali che colmino il divario nord-sud.

Solo così si potrà invertire la tendenza del PIL pro capite e creare le condizioni perché i redditi reali tornino a crescere in modo stabile. Lo scenario non è automatico: se l'Italia continuerà con crescita prossima allo zero, produttività stagnante e declino demografico, i redditi potrebbero scendere ulteriormente o rimanere bloccati per una generazione. Se invece si mette in moto una fase di espansione trainata da investimenti e innovazione, quel margine stagnante può diventare trazione reale per i lavoratori, le famiglie e il Paese.