L'ntelligenza artificiale sta trasformando il mercato del lavoro negli Stati Uniti tra automatizzazione, rischi di polarizzazione, nuove professioni e strategie per ridurre i divari e guidare il cambiamento occupazionale. Capire cosa succede lì per anticipare e gestire al meglio gli effetti della IA in in Italia è, dunque, fondamentale.
Negli ultimi anni, gli Stati Uniti si sono distinti come uno degli ecosistemi più dinamici nell’adozione di sistemi AI, grazie a un mix di ingenti investimenti, un ricco tessuto di startup e la presenza delle principali multinazionali digitali mondiali.
Questa avanzata, tuttavia, sta producendo riflessi inequivocabili sull’occupazione: da una parte, si registra una domanda crescente di competenze digitali, dall’altra emergono segnali di riduzione nei posti tradizionali, specie nei segmenti più standardizzabili del mercato del lavoro. I dati mostrano che l’automazione spinta sta rimodellando il rapporto fra produttività ed occupazione. E capire cosa sta avvenendo concretamente può aiutare anche qui in Italia a capire le tendenze dei prossimi anni al di là delle tante ricerche e studi.
La relazione tra AI e occupazione negli Stati Uniti è oggetto di analisi dettagliate che presentano aspetti sia quantitativi sia qualitativi. Secondo le più recenti rilevazioni, nel solo ottobre 2025 sono stati persi circa 31 mila impieghi, per effetto diretto dell’automazione dei processi tramite AI. Challenger, Gray & Christmas ha segnalato che si tratta del valore più alto registrato dal 2003, con licenziamenti trainati principalmente nei settori tecnologici, dove le attività di routine vengono affidate ai sistemi intelligenti. Tuttavia, il fenomeno non è uniforme: buona parte dei tagli riguarda i cosiddetti "colletti bianchi", impiegati in mansioni ripetitive e automatizzabili.
I fattori di questa trasformazione sono molteplici. Da un lato, la pressione competitiva spinge le aziende a sostituire risorse umane con algoritmi quando vi siano evidenti vantaggi in termini di efficienza e costo. Dall’altro, la narrazione manageriale enfatizza i temi dell’innovazione e della produttività, talvolta attribuendo all’intelligenza artificiale decisioni di riduzione dei costi che sono in parte riconducibili a dinamiche cicliche o ad altre forme di digitalizzazione. Ne è un esempio la dichiarazione di Shopify, che prevede nuove assunzioni solo se l’output non può essere raggiunto tramite strumenti AI.
Le controversie principali risiedono nell’effettiva attribuzione dei tagli all’adozione di AI. Mentre alcune aziende — come Duolingo e Salesforce — hanno esplicitamente indicato l’intelligenza artificiale come causa dei licenziamenti, altri casi, come quello di Amazon, restano ambigui e mostrano una sovrapposizione tra automazione e esigenze di ristrutturazione economico-finanziaria.
Un ulteriore elemento di discussione deriva dagli studi accademici e dagli osservatori sul lavoro. Secondo un’indagine condotta dal Yale Budget Lab e dal Brookings Institution, non esistono ad oggi prove determinanti di una “disoccupazione indotta dall’AI” su larga scala; l’impatto reale appare più contenuto di quanto suggeriscano i dati dei licenziamenti resi pubblici dalle aziende. Tuttavia, molte analisi convergono nell’indicare un cambiamento strutturale delle mansioni e una pressione crescente sui lavori di primo livello, creando nuovi rischi di esclusione per alcune fasce della popolazione attiva.
L’avanzamento della tecnologia negli Stati Uniti sta accentuando un processo di polarizzazione delle competenze e delle opportunità lavorative. Le zone e i settori più esposti all’adozione di AI vivono trasformazioni che penalizzano soprattutto chi svolge mansioni ripetitive, di routine o facilmente automatizzabili, tipicamente lavoratori senza laurea o con qualifiche medio-basse. La riduzione degli impieghi è più marcata nel manifatturiero, nei servizi amministrativi e operativi, e tra i giovani appena entrati nel mercato del lavoro.
Di contro, si osserva una crescente richiesta di profili con competenze specialistiche: data scientist, sviluppatori, analisti e professionisti della gestione dei dati sono diventati elementi centrali nell’economia dell’AI. Questa crescita è tuttavia accompagnata da disparità di reddito e di condizioni contrattuali; chi possiede forti competenze digitali ottiene non solo salari più elevati, ma anche benefici quali flessibilità oraria e lavoro da remoto. Tale dinamica alimenta la cosiddetta “disoccupazione da efficienza”, cioè la crescita del PIL che non genera nuovi posti per chi non partecipa alla trasformazione digitale.
Secondo alcune analisi, la generazione dei nuovi laureati e dei lavoratori entry-level risente più degli altri degli effetti indiretti dell’automazione e tende a incontrare maggiori ostacoli nell’accesso alle prime esperienze professionali. Tuttavia, la stessa rivoluzione offre opportunità a chi saprà aggiornare rapidamente le proprie capacità e inserirsi nei flussi innovativi, soprattutto in ambiti dove AI e lavoro umano collaborano. È quindi essenziale un approccio multipolare: non solo osservare le perdite, ma anche monitorare la ricollocazione e la creazione di nuove occasioni di crescita.
L’affermazione dell’intelligenza artificiale ha determinato una ridefinizione del mercato delle competenze negli Stati Uniti. L’espansione dell’AI non comporta solo la perdita di alcune occupazioni, ma anche la nascita di professioni del tutto nuove e la trasformazione di ruoli già esistenti.
Un dato rilevante è che, secondo più studi, il 39% delle competenze attuali risulterà superato nei prossimi cinque anni. Diventa quindi indispensabile investire in percorsi formativi aggiornati e in pratiche di lifelong learning.
Si assiste anche a una minore rilevanza del titolo di studio formale rispetto all’acquisizione di competenze concrete, spesso certificate da programmi di aggiornamento professionale o da sistemi di valutazione interna alle aziende, secondo i principi delineati dai recenti programmi federali e dal “America’s AI Action Plan”.
La diffusione non omogenea dell’AI nel territorio americano evidenzia differenze marcate sia a livello geografico sia tra settori produttivi. Le aree di maggiore concentrazione, come Boston, Seattle e la Silicon Valley, sono diventate epicentri dell’innovazione e della creazione di posti ad alta qualificazione. Nuovi hub tecnologici emergono in città come Boulder e Salt Lake City, dove la presenza di centri di ricerca e l’accesso a investimenti privati hanno accelerato l’integrazione dell’AI nei processi locali.
Al contrario, le regioni a prevalente vocazione manifatturiera o con minore accesso a infrastrutture digitali rimangono escluse dai benefici della trasformazione tecnologica. Questo scenario alimenta divari economici e sociali, rischiando di accrescere la marginalizzazione delle comunità meno digitalizzate e dei piccoli centri industriali. Inoltre, la concentrazione di contratti e incentivi pubblici verso le grandi aziende innovative, favorita da iniziative legislative come il "Chip and Science Act", rischia di rafforzare la posizione dominante dei giganti digitali rispetto alle piccole e medie imprese.
Queste dinamiche pongono la necessità di politiche territorialmente mirate e di piani di supporto alla crescita inclusiva, affinché la transizione verso l’AI non amplifichi le disparità già presenti negli Usa.
L’esperienza recente statunitense offre spunti autentici per la comprensione della mutazione in atto. I dati dimostrano che la relazione tra innovazione tecnologica avanzata e occupazione è complessa: non si assiste a una semplice riduzione dei posti di lavoro, ma piuttosto a una ricomposizione delle mansioni e delle competenze. Le aree dove AI e automazione si diffondono più velocemente beneficiano di investimenti e alti salari, ma vedono anche aumentare la distanza rispetto ai territori meno digitalizzati.
L’equilibrio fra produttività ed equità richiede politiche pubbliche attente all’aggiornamento continuo delle competenze, alla redistribuzione dei benefici dell’innovazione e al sostegno attivo a chi rischia l’esclusione. La lezione principale dagli Stati Uniti è che la competitività di un sistema non può prescindere dalla capacità di accompagnare le transizioni, riducendo i divari e investendo in capitale umano e sociale. In definitiva, l’evoluzione del lavoro nell’era AI non sarà segnato solo dalla tecnologia, ma, soprattutto, dalla qualità delle scelte collettive compiute per gestirne l’impatto.