L'ordinamento italiano consente il recesso dal rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo (GMO) quando intervengono esigenze organizzative, produttive o economiche che determinano la necessità di sopprimere una posizione lavorativa. Tuttavia, la recente giurisprudenza della Cassazione ha portato a una ridefinizione dei limiti e delle modalità di attuazione di tale misura, con particolare enfasi sull’obbligo del cosiddetto "repêchage" e sul rispetto dei criteri di buona fede e correttezza organizzativa.
L'analisi normativa evidenzia come la tutela della continuità occupazionale costituisca uno degli snodi centrali del diritto del lavoro, ancorandosi ai principi di proporzionalità, causalità e extrema ratio indicati dalla L. 604/1966. Il sistema di garanzie riconosciuto al dipendente nella fase di soppressione del posto riversa sul datore di lavoro l’onere di dimostrare l’effettiva impossibilità di ricollocamento interno, anche a fronte della disponibilità espressa dal lavoratore a svolgere mansioni differenti—pur rimanendo all’interno dei limiti della sua professionalità.
Occorre rilevare che la pronuncia n. 18063 del 3 luglio 2025 della Cassazione ribadisce l’impossibilità di licenziare un dipendente per preferire semplicemente un'altra figura, rimarcando che tale possibilità è subordinata solo a casi di scarso rendimento accertato o gravi violazioni. Emergono, così, nuovi standard valutativi per la verifica delle condizioni che consentono di procedere al licenziamento per soppressione del posto, richiedendo una forte attenzione alla compatibilità tra esigenze aziendali e tutele individuali del lavoratore.
L'obbligo di repêchage: cos'è e come si applica nei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo
L’istituto del repêchage ricopre un ruolo cardine nella disciplina dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. Questa procedura impone al datore di lavoro di valutare tutte le posizioni lavorative esistenti in azienda e verifica la concretezza di una reale impossibilità di reimpiego del dipendente. L’obbligo di repêchage trova il suo fondamento giurisprudenziale già dalla sentenza Cass. 7 gennaio 2005, n. 239 e consiste nel dovere di ricollocamento del lavoratore, seppur in mansioni diverse e anche inferiori, purché compatibili con le sue professionalità e capacità. In sintesi:
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Requisiti di applicazione: l’obbligo riguarda ogni forma di riorganizzazione aziendale sfociata nella soppressione di determinate attività, con l’effetto di rendere superflua la posizione occupata dal dipendente.
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Condizioni operative: il dovere di ricollocamento deve essere adempiuto prima di procedere al licenziamento; qualsiasi recesso adottato senza aver valutato tutte le alternative internalizzabili risulta viziato.
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Ambito soggettivo: la verifica deve estendersi alle mansioni già svolte tanto quanto a quelle diverse e inferiori, fatti salvi i limiti legati alla onorabilità e idoneità personale.
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Diligenza richiesta: la giurisprudenza, con numerosi precedenti di Cassazione, impone una verifica concreta e documentata da parte del datore circa l’assenza di posizioni vacanti utilizzabili dal lavoratore oggetto di recesso.
L’impianto del repêchage rappresenta una garanzia non solo procedurale, ma anche sostanziale, imponendo una ricerca effettiva, leale e trasparente di soluzioni organizzative che consentano la salvaguardia del rapporto di lavoro. Carenza di adempimento o valutazioni meramente formali si traducono nell'illegittimità dell’atto di licenziamento, con conseguenti tutele in favore del lavoratore.
L’obbligo di ricollocamento trova rafforzamento nei casi in cui il dipendente sia titolare di particolari esigenze protette dalla legge, come accade nel caso della fruizione di permessi per assistenza familiare ex art. 3 L. 104/1992. In simili situazioni, ogni opzione alternativa proposta deve essere effettivamente compatibile con le condizioni di vita e di cura dell’interessato, pena l'invalidità del licenziamento.
I limiti e le condizioni del repêchage secondo la Cassazione: compatibilità delle mansioni e professionalità del lavoratore
Il perimetro operativo del repêchage, secondo la più recente giurisprudenza della Suprema Corte, è circoscritto dai principi di fungibilità delle mansioni e dalla verifica oggettiva (non discrezionale) delle competenze maturate dal lavoratore interessato. Provando a riassmere:
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Compatibilità delle mansioni: Il datore di lavoro è tenuto a verificare la sussistenza di posizioni libere "compatibili" con la professionalità del dipendente da licenziare (art. 3 L. 604/1966), senza obbligo di estensione tout court a ruoli non attinenti alle capacità acquisite.
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Natura del demansionamento: La Cassazione, con ordinanza n. 1364 del 20 gennaio 2025, esclude che possa essere richiesto al datore di lavoro di creare ex novo posizioni o modificare sostanzialmente l'organizzazione produttiva per salvaguardare il posto a ogni costo.
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Mansioni inferiori: La posizione giurisprudenziale consolidata prevede che la ricollocazione in mansioni inferiori sia dovuta solo se queste risultino effettivamente compatibili con il bagaglio professionale posseduto dal lavoratore. Non vi è imposizione per attività non rientranti nel perimetro delle sue competenze accertate. In presenza di ruoli "fungibili", il datore deve documentare quale strada sia stata seguita per accertare la impossibilità del reintegro anche in tali posizioni.
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Vincoli organizzativi: L’esistenza di una organizzazione aziendale stabile ed efficiente deve essere rispettata: il giudice non può imporre un assetto differente a quello scelto dall’imprenditore, a meno che non emerga una chiara pretestuosità della scelta aziendale (Cfr. Cass. 23301/2018, 10627/2024).
Abbiamo elaborato anche una tabella con gli ambiti di ricerca delle mansioni secondo la Cassazione
Ambito di Ricerca
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Obbligo di Verifica
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Stesse mansioni
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Sì
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Mansioni inferiori "fungibili"
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Sì, se compatibili con la professionalità
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Mansioni non compatibili
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No
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Creazione di nuovi ruoli
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No
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La best practice richiede che venga eseguita una valutazione dettagliata dei profili attivi in azienda, documentando le posizioni verificate e le ragioni di eventuale non idoneità, procedura che garantisce sia la serietà dell'adempimento datoriale sia la responsabilità trasparente del processo organizzativo nei confronti del lavoratore.
Onere della prova e valutazione delle alternative di ricollocamento: ruolo del datore di lavoro e del lavoratore
L'obbligo di dimostrare la legittimità del licenziamento grava decisamente sulla parte datoriale. Tale principio è stato ribadito da numerose sentenze tra cui Cass., 10 luglio 2024, n. 18904, che sancisce come il datore di lavoro debba provare l'insussistenza di soluzioni alternative anche in relazione a eventuali mansioni inferiori attribuibili in azienda al momento del licenziamento. I passaggi da ricordare sono 3:
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Obblighi di documentazione: la ricerca interna delle posizioni disponibili non può essere astratta o genericamente dichiarata, ma richiede elementi oggettivi e controllabili (ad esempio, organigrammi, processi di selezione interni, registri delle posizioni vacanti).
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Nessun onere sul lavoratore: sul dipendente non ricade l’obbligo nemmeno di allegazione: è il datore che deve esplicitare, anche in giudizio, tutti gli elementi presi in considerazione rispetto alle possibilità di ricollocamento.
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Valutazione della professionalità: la stima della idoneità alle mansioni inferiori deve basarsi su fatti oggettivi, con riferimento al livello di inquadramento contrattuale, alle precedenti esperienze lavorative e alla formazione già acquisita dal lavoratore.
La Cassazione ha escluso che il datore di lavoro sia tenuto a predisporre percorsi di formazione aggiuntiva o riconversione delle competenze (
art. 2103 c.c.). Il dovere si limita alle attitudini e conoscenze maturate dal lavoratore durante il rapporto. Il controllo giudiziale si esercita a valle del procedimento attraverso una verifica puntuale e "non alternativa" delle soluzioni effettivamente escluse dal datore.
Profili di illegittimità del licenziamento: conseguenze e tutele risarcitorie per il lavoratore
In presenza di una inosservanza dell’obbligo di repêchage, il licenziamento perde il requisito della giustificatezza e diventa illegittimo. La conseguenza immediata è rappresentata dalla possibilità per il lavoratore di ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro ove sussistano i requisiti dimensionali, oppure una tutela di natura risarcitoria, secondo la disciplina degli articoli 18 della L. 300/1970 e 8 della L. 604/1966. I punti cardine sono:
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Indennità risarcitoria: per le aziende con meno di quindici dipendenti si riconosce una quota proporzionata all’anzianità di servizio con un tetto massimo di sei mensilità, come da orientamento Cass., 22 maggio 2025, n. 13741.
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Reintegrazione: nelle imprese di maggiori dimensioni, la reintegra può essere disposta, a patto che il fatto materiale addotto per il licenziamento risulti insussistente.
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Tutela obbligatoria: nel caso di recesso non ritorsivo in contesti di minori dimensioni, si applica unicamente la tutela economica, escludendo la possibilità di riammissione.
In sede giudiziale, il rilievo della pretestuosità o genericità della causale organizzativa e la mancata dimostrazione dell’assoluta impossibilità di repêchage comportano la condanna al risarcimento e, in taluni casi, al pagamento delle spese legali. Si segnala che la recente
Corte Costituzionale n. 128/2024 ha evidenziato la necessità di collegare la tutela conseguente a un sistema sanzionatorio dissuasivo ed efficace, volto ad evitare il ricorso a licenziamenti privi di fondamenti sostanziali.
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