Quasi due terzi dei lavoratori statunitensi sarebbero disposti a ridurre il proprio stipendio per non perdere l'occupazione.
Negli ultimi mesi, si è intensificato un tipo di narrazione che, con toni sempre più allarmanti, accompagna la crescita dell'intelligenza artificiale nel mondo del lavoro. Alcuni tra i maggiori CEO globali hanno lanciato dichiarazioni che hanno trovato una risonanza immediata nelle testate internazionali e nella coscienza collettiva. Jim Farley, amministratore delegato di Ford, ha affermato che la metà dei colletti bianchi rischia di perdere il posto. Dario Amodei, cofondatore di Anthropic, è andato oltre, prevedendo un possibile 20% di disoccupazione innescato dall'automazione intelligente.
A completare il quadro, Andy Jassy di Amazon ha suggerito apertamente ai propri dipendenti che in futuro potranno essere sostituiti da agenti virtuali basati sull'IA.
Di fronte a questo scenario, una parte crescente della forza lavoro ha cominciato ad accettare compromessi impensabili fino a pochi anni fa. Una indagine citata da Anne Lutz Fernandez mostra un dato inquietante: quasi due terzi dei lavoratori statunitensi sarebbero disposti a ridurre il proprio stipendio per non perdere l'occupazione in caso di licenziamenti di massa legati all'introduzione dell'intelligenza artificiale. Non si tratta di una rinuncia dettata da una necessità concreta, ma di un adattamento psicologico al terrore indotto da un futuro presentato come inevitabile.
In parallelo, il 42% degli intervistati accetterebbe trasferimenti aziendali non richiesti, e il 37% sarebbe pronto a subire un demansionamento. Quasi la metà di chi lavora da remoto, inoltre, si dice disposto a tornare in ufficio in nome della conservazione del posto, mentre il 53% accetterebbe responsabilità aggiuntive senza alcun adeguamento retributivo. Questo atteggiamento di disponibilità totale, che si maschera da flessibilità, è in realtà il sintomo di una profonda fragilità sistemica. La precarietà non è più solo contrattuale: è diventata emotiva, psicologica, esistenziale.
L'informazione gioca in questo quadro un ruolo che trascende la funzione di cronaca per entrare in quello della costruzione del consenso. Titoli come l'apocalisse dell'IA o bagni di sangue per i colletti bianchi non sono semplici esagerazioni giornalistiche: sono armi retoriche che alimentano un circolo vizioso, in cui ogni annuncio o studio sull'AI viene filtrato attraverso il linguaggio della minaccia. Il risultato è un effetto psicosociale devastante.
Come documenta l'American Psychological Association, il 41% dei lavoratori teme che almeno una parte del proprio lavoro verrà resa obsoleta dall'AI, con tassi di allarme particolarmente elevati tra giovani, donne e persone con disabilità. La giornalista Allison Morrow, citata da Fernandez, definisce questo fenomeno una strategia antica rivestita di modernità: tenere i lavoratori in allerta costante, spingendoli a lavorare di più per paura di perdere tutto. In questo contesto, la solidarietà sindacale fatica a mantenersi, poiché la competizione individuale erode il senso di appartenenza e di lotta collettiva. La disciplina del lavoro non viene più imposta da una figura esterna, ma interiorizzata: il lavoratore si sorveglia da solo, si auto-sfrutta, si rende utile anche quando non è richiesto, per timore di essere il prossimo a cadere.
Se è vero che l'ansia per l'automazione coinvolge tutto il mondo del lavoro, è altrettanto evidente che non colpisce tutti allo stesso modo. I lavoratori a reddito medio-basso, privi di una rete di sicurezza economica e con minori opportunità di riconversione professionale, sono i primi a percepire la propria sostituibilità come una condanna incombente. I giovani, ancora in fase di ingresso nel mondo lavorativo, assistono a un futuro che già si presenta come un campo minato di algoritmi e contratti instabili.
L'istruzione non offre più garanzie: gli studenti delle scuole superiori e universitari si dichiarano preoccupati per l'impatto dell'intelligenza artificiale sul proprio percorso, e faticano a immaginare un futuro professionale stabile. Anche le persone con disabilità, spesso escluse dalle evoluzioni tecnologiche o penalizzate da strumenti poco accessibili, sono tra le categorie più esposte al rischio di marginalizzazione. La disuguaglianza tecnologica diventa un nuovo fattore discriminante, che si somma a quelli già esistenti. In questo panorama, la narrazione dominante rafforza un modello darwiniano del lavoro, in cui solo i più adattabili e obbedienti sopravvivono.
Anne Lutz Fernandez non si limita a fotografare una situazione: ne esplora anche le radici e le implicazioni politiche. Secondo la sua analisi, l'unico contrappeso possibile al potere delle aziende tecnologiche risiede nel rafforzamento dei sindacati, nella partecipazione politica dei lavoratori e nella tutela della democrazia sostanziale.
Dove il sindacato è forte, si mantengono forme di contrattazione collettiva, diritti consolidati e spazi di discussione; dove è debole, proliferano forme di autoritarismo strisciante, favorite da leggi che limitano l'accesso al voto e l'attivismo politico. Fernandez parla esplicitamente di autoritarismo furtivo, un sistema che ha permesso di minacciare le istituzioni democratiche, approfittando di un ceto lavoratore sempre più disilluso, fragile e diviso. In questo quadro l'intelligenza artificiale è un catalizzatore di squilibri, un moltiplicatore delle disuguaglianze, un'occasione per concentrare ancora più potere nelle mani di pochi soggetti privati.
Il pericolo maggiore, suggerisce Fernandez, è che tutto ciò passi inosservato nella sua gravità. Quando si accetta la precarietà come stato naturale, quando ci si convince che un taglio di stipendio è un favore, quando il diritto al tempo e alla dignità viene percepito come un lusso, allora ci si trova davanti a un pericolo più sottile ma devastante: l'anestesia collettiva del corpo sociale.
La rassegnazione diventa abitudine, la paura si trasforma in regola non scritta. È questa, forse, la vera sconfitta: un mondo del lavoro in cui non si lotta più per il meglio, ma ci si aggrappa al meno peggio. Di fronte a questa deriva, la responsabilità dei media, delle istituzioni, dei sindacati e degli intellettuali è enorme: serve una nuova cultura del lavoro, fondata sul rispetto e sulla giustizia, non sulla minaccia e sul controllo.