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Stipendi e contratti a tempo indeterminato, il 10% dei lavoratori è povero e 5 mln hanno problemi su spese basi

di Chiara Compagnucci pubblicato il
Istruzione, disuguaglianze e deprivazion

I dati diffusi da Eurostat evidenziano che la povertà lavorativa non è più circoscritta a settori marginali o posizioni precarie.

Secondo gli ultimi dati Eurostat, il 10,2% dei lavoratori italiani di almeno 18 anni, impiegati per almeno sei mesi nell'anno, si trova in una condizione di povertà monetaria. In altre parole, quasi un lavoratore su dieci guadagna meno del 60% del reddito mediano nazionale, pur lavorando in modo continuativo. Il fenomeno è noto come working poor e si manifesta in maniera sempre più estesa, al punto da travolgere anche categorie considerate stabili, come i lavoratori a tempo indeterminato.

Quello che un tempo era il traguardo della stabilità economica oggi rischia di trasformarsi in un miraggio. Il contratto a tempo pieno e indeterminato, pur garantendo continuità lavorativa, non protegge più da difficoltà materiali e disagio economico, soprattutto se associato a retribuzioni basse, orari ridotti o territori con costo della vita elevato. Questo scarto tra status lavorativo e qualità della vita reale mette in discussione un'intera architettura sociale e contrattuale:

  • La povertà che corre tra le buste paga
  • Istruzione, disuguaglianze e deprivazione

La povertà che corre tra le buste paga

I dati diffusi da Eurostat evidenziano che la povertà lavorativa non è più circoscritta a settori marginali o posizioni precarie. Riguarda l'intera struttura del mercato del lavoro. Gli occupati full-time in condizione di povertà sono oggi il 9% del totale, in aumento rispetto all'8,7% dell'anno precedente. Se si guarda ai lavoratori autonomi, la situazione è più drammatica: il 17,2% guadagna meno del 60% del reddito mediano nazionale.

I lavoratori dipendenti, seppur in misura minore, non sono immuni: l'8,4% è povero nonostante un regolare contratto di lavoro. E se per molti il part time è una necessità più che una scelta, i numeri sembrano offrire una magra consolazione: la povertà tra i lavoratori part-time cala dal 16,9% al 15,7%, ma rimane comunque su livelli alti. L'anomalia italiana si amplifica nel confronto europeo: in Germania, solo il 3,7% degli occupati a tempo pieno è povero, in Finlandia appena il 2,2%. L'Italia si colloca, invece, tra i peggiori Paesi dell'Unione per povertà lavorativa, insieme alla Spagna, che raggiunge un simile 9,6%.

Ancora più evidente è il peso della condizione anagrafica: gli under 30 sono i più penalizzati, con una percentuale di povertà dell'11,8% tra i 16 e i 29 anni. Ma la povertà tocca anche la fascia tra i 55 e i 64 anni, con un valore del 9,3%, segno che il disagio economico non risparmia neanche chi ha lunga esperienza lavorativa.

Istruzione, disuguaglianze e deprivazione

Il livello di istruzione rimane un fattore determinante nella distribuzione della povertà lavorativa. I dati parlano chiaro: tra chi ha concluso solo la scuola dell'obbligo, il 18,2% è povero, un dato in peggioramento rispetto al 17,7% dell'anno precedente. All'opposto, chi possiede un titolo universitario ha una probabilità molto più bassa di rientrare nella soglia di povertà lavorativa . Anche questa fascia subisce un'inversione di tendenza, con un aumento netto rispetto al 3,6% del 2023.

La questione non riguarda solo il reddito diretto, ma si estende alla deprivazione materiale, che colpisce oggi circa 5 milioni di persone in Italia. Questo indicatore, utilizzato da Eurostat, rileva la difficoltà a sostenere almeno cinque su tredici spese considerate essenziali per una vita dignitosa: dal riscaldamento adeguato alla possibilità di fare almeno un pasto proteico ogni due giorni, dall'avere scarpe adatte fino alla capacità di affrontare spese improvvise. In particolare, circa 2,7 milioni di persone versano in condizione di deprivazione materiale “grave”, ovvero non riescono ad affrontare almeno sette di queste tredici voci. Anche se in leggera diminuzione, il dato resta allarmante, perché testimonia un deterioramento strutturale della qualità della vita.

Ancora più inquietante è la crescita del divario tra ricchi e poveri. Il primo decile, ovvero il 10% più povero, ha accesso solo al 2,5% del reddito nazionale, in calo rispetto al 2,7% del 2023. Al contrario, il decile più ricco ha aumentato la sua quota dal 24,1% al 24,8%. L'Italia si conferma dunque come uno dei Paesi europei con maggiore disuguaglianza distributiva, al pari o peggio della Germania, dove l'ultimo decile detiene il 23,7% del reddito.

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