Il tempo tuta una questione delicata per tanti lavoratori sicuramente da conoscere e approfondire conoscendo la normativa in vigore, i contratti nazionali e le sentenze della Cassazione sull'argomento
La questione del tempo tuta continua a rimanere di stretta attualità anche nel 2025. E accade per un motivo ben preciso: al di là della normativa nazionale e dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL) che cercano di disciplinare ogni aspetto, sempre più sentenze della Corte di Cassazione e dei tribunali hanno allargato o ristretto il campo di applicazione.
Di conseguenza è molto interessante analizzare le regole in vigore considerato che sono numerose le categorie di lavoratori coinvolti.
Dagli infermieri agli operai, fino ad arrivare ai camerieri, sono in tanti a chiedersi se il tempo impiegato per indossare e togliere la tuta o la divisa da lavoro va retribuito e dunque rientra nell'orario di lavoro oppure si tratta di una attività preparatoria alla giornata lavorativa e quindi rientra tra le cosiddette azioni di diligenza e come tale non va compensata economicamente.
Se i giudici sono stati chiamati a più riprese a pronunciarsi sul funzionamento del tempo tuta e continuano a farlo anche nel 2025 è per via dell'impatto economico che deriva dalla decisione.
Sia per i datori di lavoro sia per i lavoratori fa molta differenza se nel conteggio dei minuti retribuiti rientra anche il quotidiano tempo di vestizione e di svestizione. Appare quindi evidente come il concetto di tempo tuta sia strettamente legato a quello dell'orario di lavoro giornaliero minimo e massimo e la risposta su come funziona vada ricercata proprio nel rapporto che lega questi due concetti.
Ebbene, normativa alla mano, per orario di lavoro si intende il periodo in cui il dipendente sia a disposizione del datore di lavoro. E lo è in due circostanze: al lavoro e nell'esercizio delle attività e delle funzioni. La conclusione è presto detta: se c'è un ordine ben preciso ovvero il tempo di lavoro viene organizzato e controllato dal datore, ecco che va considerato da retribuire.
Il quadro normativo sta diventando quindi più chiaro su quando il tempo tuta deve essere pagato o no. E viene in soccorso anche la Corte di Cassazione: in una recente sentenza ha ricordato l'importanza di fare riferimento ai contratti di lavoro ovvero a quelle parti in cui è specificato se la scelta del tempo e del luogo dove indossare la divisa lavorativa sia facoltativa (a casa o nell'eventuale spogliatoio dell'azienda, ad esempio) oppure se il tutto è rinviato alle disposizioni del datore di lavoro.
Nel primo caso non è prevista alcuna retribuzione perché l'attività rientra tra i cosiddetti atti di diligenza preparatori, nel secondo il cosiddetto tempo tuta deve invece essere pagato perché considerato lavoro effettivo. Il problema si pone al livello successivo: quanto dura il tempo tuta?
Anche in questo caso è stato necessario l'intervento di un tribunale, secondo cui non può essere rimesso alla discrezione del lavoratore, ma deve essere calcolato sulla base del tempo indispensabile per eseguire con diligenza questa operazione.
I diversi Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro hanno regolamentato in maniera specifica il tempo tuta, creando notevoli differenze tra un settore e l'altro. Questo ha generato una frammentazione normativa che rende necessario analizzare caso per caso la situazione di ogni lavoratore.
Nel settore sanitario, gli infermieri devono indossare divise specifiche per motivi igienico-sanitari. Secondo le più recenti interpretazioni del CCNL Sanità, quando la vestizione deve avvenire obbligatoriamente nella struttura ospedaliera e seguendo protocolli specifici, il tempo dedicato a questa attività deve essere considerato come orario di lavoro effettivo.
Nella mia esperienza come consulente, ho assistito a numerosi casi in cui personale infermieristico ha ottenuto il riconoscimento retroattivo del tempo dedicato alla vestizione, con conseguenti adeguamenti retributivi significativi.
Per gli operai del settore industriale, il CCNL Metalmeccanici aggiornato al 2025 prevede che, quando i dispositivi di protezione individuale (DPI) devono essere indossati in azienda per motivi di sicurezza o quando la loro complessità richiede tempo significativo, tale periodo deve essere retribuito.
Un esempio concreto: negli stabilimenti chimici dove è necessario indossare tute protettive speciali che richiedono procedure particolari, il tempo di vestizione e svestizione viene conteggiato nell'orario di lavoro.
Per camerieri e personale alberghiero, i CCNL del Turismo e della Ristorazione prevedono generalmente che, se la divisa deve essere indossata necessariamente sul luogo di lavoro per disposizione aziendale, il tempo dedicato va retribuito. Se invece il lavoratore può arrivare già vestito, tale tempo non viene considerato.
La Corte di Cassazione ha emesso diverse sentenze illuminanti sul tema nel corso degli ultimi anni. Particolarmente rilevante è stata la sentenza n. 9215 della Cassazione Civile che ha ribadito un principio fondamentale: il tempo di vestizione rientra nell'orario di lavoro quando è sottoposto al potere direttivo e di controllo del datore di lavoro.
Inoltre, in una recentissima pronuncia del 2025, la Suprema Corte ha stabilito che anche il trasferimento dagli spogliatoi alla postazione di lavoro, quando obbligatorio e necessario, deve essere considerato orario lavorativo e quindi retribuito.
Questi orientamenti giurisprudenziali sugli orari di lavoro hanno avuto un impatto significativo nella pratica quotidiana delle aziende, che hanno dovuto adeguare le proprie politiche interne relative alla gestione degli orari e delle retribuzioni.
Un aspetto importante da considerare riguarda la quantificazione effettiva del tempo di vestizione e svestizione. Non essendo un valore standard, può variare significativamente in base a diversi fattori:
In assenza di tali sistemi, è prassi comune stabilire un tempo forfettario attraverso accordi sindacali interni, che generalmente varia dai 5 ai 15 minuti per operazione di vestizione/svestizione, a seconda del settore e della complessità dell'abbigliamento richiesto.
Se un lavoratore ritiene che il proprio tempo tuta non sia stato correttamente retribuito, può intraprendere specifiche azioni legali. È importante considerare che i diritti retributivi sono soggetti a prescrizione quinquennale, quindi è possibile richiedere gli arretrati fino a 5 anni precedenti.
Il percorso consigliato include:
La questione del tempo tuta rimane un tema in continua evoluzione nella giurisprudenza italiana. Le nuove modalità di organizzazione del lavoro, l'introduzione di tecnologie avanzate per il monitoraggio degli orari e l'aggiornamento costante dei CCNL contribuiscono a rendere questo argomento particolarmente dinamico.
Nel 2025, assistiamo a una tendenza verso una maggiore standardizzazione delle regole attraverso accordi integrativi aziendali che mirano a chiarire preventivamente questi aspetti, riducendo il contenzioso e garantendo maggiore certezza tanto ai datori di lavoro quanto ai dipendenti.
Resta fondamentale per ogni lavoratore conoscere approfonditamente le disposizioni del proprio contratto collettivo e le eventuali politiche aziendali sul tema, così da poter far valere correttamente i propri diritti in materia di tempo tuta.