Le chat WhatsApp tra colleghi sono davvero private? Quando i messaggi scambiati possono essere utilizzati come prova per provvedimenti disciplinari e licenziamenti secondo la normativa
Le comunicazioni digitali sul posto di lavoro rappresentano oggi un terreno giuridicamente complesso, in cui i confini tra vita privata e professionale spesso si confondono. In particolare, l'utilizzo di WhatsApp tra colleghi solleva importanti questioni relative alla privacy e alle possibili conseguenze disciplinari.
Nel contesto lavorativo, il principio della segretezza delle comunicazioni private è sancito dall'articolo 15 della Costituzione italiana, che protegge la corrispondenza e le comunicazioni da qualsiasi violazione non autorizzata. Questo diritto coinvolge le comunicazioni digitali, incluse quelle inviate attraverso applicazioni come WhatsApp, che sono considerate equivalenti a una corrispondenza privata tradizionale.
Secondo la normativa italiana e il Regolamento UE n. 2016/679 (GDPR), i dati personali degli individui, comprese le informazioni scambiate nelle chat, devono essere trattati in modo da garantire la riservatezza e la protezione. Qualsiasi azione da parte del datore di lavoro che comporti l'accesso a queste conversazioni senza autorizzazione rischia di costituire una violazione della privacy, configurando potenzialmente un reato ai sensi degli articoli 615 e 616 del Codice Penale.
In ambito occupazionale, i datori di lavoro possono a volte giustificare l’esigenza di controlli sul comportamento dei dipendenti, tuttavia tali azioni devono rispettare il principio di proporzionalità. Gli strumenti come i gruppi WhatsApp, se limitati a una cerchia ristretta di individui, sono considerati uno spazio virtuale privato e, pertanto, costituiscono una zona protetta dalle normative sulla privacy dei lavoratori. La divulgazione non autorizzata dei contenuti delle chat, anche da parte dei colleghi, rappresenta una violazione della segretezza delle comunicazioni che può essere perseguita sia civilmente che penalmente. Questo vale anche quando il datore di lavoro acquisisce tali informazioni per giustificare azioni disciplinari o procedimenti legali contro i dipendenti.
La Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 21965/2018, ha stabilito che i messaggi scambiati in queste chat non possono essere motivo di licenziamento, anche se contengono espressioni offensive verso il datore di lavoro, poiché non hanno carattere diffamatorio non essendo destinati a divulgazione pubblica.
Le aziende, pur potendo vigilare sulla condotta dei dipendenti nell'ambiente lavorativo, non possono accedere alle chat private o usarle come prove in procedimenti disciplinari. Qualsiasi sorveglianza o acquisizione indebita di tali messaggi viola la normativa sulla privacy e la libertà costituzionale. Resta comunque consigliabile mantenere un comportamento professionale anche nelle comunicazioni private tra colleghi.