Secondo la ricerca del Politecnico, solo il 10% dei lavoratori italiani si dichiara pienamente soddisfatto sotto il profilo mentale, fisico e relazionale.
Secondo l'Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, si tratta di una tendenza silenziosa ma pervasiva che non si manifesta più con l'abbandono effettivo del posto di lavoro, ma con qualcosa di ancora più profondo: la rottura del legame emotivo tra persona e organizzazione.
Questo fenomeno nasce in un contesto in cui il lavoratore medio è ormai disilluso, privo di slancio, e al tempo stesso prigioniero dell'incertezza. Le dimissioni, che sembravano essere una forma di ribellione positiva o di ricerca di benessere, sono oggi in calo. I numeri lo dimostrano: le dimissioni volontarie sono diminuite del 2,9% rispetto all'anno precedente, una tendenza confermata anche nei trimestri precedenti. La grande ondata del mollo tutto si è trasformata in un'onda lunga di immobilità psicologica, dove le persone restano dove sono, ma non credono più in ciò che fanno.
In questo clima, la parola chiave non è più dimettersi, ma disconnettersi. I lavoratori sono sempre più presenti fisicamente, ma emotivamente assenti. L'entusiasmo è evaporato. Il senso di appartenenza è evaporato. E ciò che resta è una partecipazione minima, un'esecuzione meccanica delle mansioni, una sopravvivenza professionale priva di coinvolgimento. Andiamo nei dettagli:
Tra le cause c'è la percezione costante di insicurezza economica, alimentata da un'inflazione persistente, dal rincaro dei costi della vita e dalla consapevolezza che gli stipendi non crescono allo stesso ritmo. A cui si aggiungono le cicatrici lasciate dal post-pandemia, l'impatto delle guerre internazionali sull'economia globale e una transizione tecnologica che alimenta ansia anziché entusiasmo. In questo scenario, il rischio percepito del cambiamento è diventato troppo alto. Molti lavoratori temono che lasciare un impiego per cercare qualcosa di meglio possa tradursi in una regressione professionale o reddituale. Il dato più eloquente riguarda i pentiti del cambio lavoro: se nel 2023 erano il 56%, nel 2025 sono solo il 20%.
Di fronte a tutto questo, emerge una nuova scala di priorità. I dati dell'Osservatorio evidenziano che il 75% delle persone cerca sicurezza contrattuale, il 73% un ambiente stimolante, e solo dopo viene la retribuzione (69%) e la carriera (51%). La mobilità lavorativa non è più sinonimo di ambizione, ma viene valutata solo se accompagnata da garanzie concrete. E quando queste mancano, l'unica scelta è restare fermi, anche se insoddisfatti.
Per i responsabili delle risorse umane, il grande distacco è una sfida ben più complessa rispetto alla gestione delle dimissioni. Se convincere un dipendente a non andarsene è già difficile, riconnetterlo emotivamente al lavoro dopo che si è disinnamorato è un compito ancora più arduo. I dati dell'Osservatorio dimostrano che, nel 2025, la vera missione per gli HR manager non è trattenere, ma riaccendere: dare significato, visione, prospettiva.
Questo significa agire su più livelli. Il primo è quello della cultura organizzativa con valori in cui credere, obiettivi chiari, e una visione condivisa del futuro. Le nuove generazioni non si accontentano più di benefit o smart working: cercano un lavoro che abbia un impatto, che sia coerente con i propri valori, che dia un senso all'impegno quotidiano.
Il secondo fronte è quello delle competenze e dell'innovazione tecnologica. L'intelligenza artificiale, sempre più presente nei processi aziendali, può diventare un alleato o un fattore di esclusione. Se vissuta come sostituzione dell'umano, genera paura e resistenza. Se percepita come strumento per migliorare il lavoro quotidiano, può contribuire a rafforzare il senso di efficacia e modernità del proprio ruolo.
Infine, serve una leadership diversa, più empatica, orientata alla fiducia, capace di leggere i segnali deboli del malessere e intervenire prima che si trasformino in cinismo cronico.