Dal 2006 il tuo sito imparziale su Lavoro, Fisco, Investimenti, Pensioni, Aziende ed Auto

In quali casi si rischia il licenziamento per dei post su Facebook e Instagram in base normative e giurisprudenza

di Marcello Tansini pubblicato il
Post Facebook Instagram e licenziamento

Facebook e Instagram possono diventare terreno rischioso per i lavoratori: regole, limiti e casi in cui post, commenti o comportamenti online possono giustificare il licenziamento secondo le norme e la giurisprudenza

I comportamenti manifestati attraverso piattaforme come Facebook e Instagram assumono rilievo giuridico rilevante nel contesto lavorativo italiano. L’amplificazione del messaggio dovuta alla platea potenzialmente illimitata dei social network rende ogni post o commento suscettibile di valutazione disciplinare, anche ai sensi dell’articolo 2105 del Codice Civile e delle normative specifiche in materia di rapporto di lavoro. La giurisprudenza degli ultimi anni ha consolidato l’orientamento che considera tali condotte parte integrante delle relazioni professionali, attribuendo rilievo a ogni comportamento, anche extra lavorativo, quando incide sulla fiducia e sull'onore tra dipendente e datore di lavoro. Pertanto, la disciplina del licenziamento per post sui social richiede una puntuale analisi della normativa vigente e delle più recenti pronunce giudiziarie.

Quando un post su Facebook o Instagram può portare al licenziamento: le condizioni rilevanti secondo la legge

La possibilità di subire il licenziamento per post sui social trova fondamento nel rappresentare una violazione degli obblighi di fedeltà, correttezza e buona fede previsti dal rapporto di lavoro. Non ogni espressione sconveniente giustifica comunque il recesso: è necessario che emergano precise condizioni di gravità che rendono il comportamento disciplinarmente sanzionabile.

  • Grado di diffusione del post: Un contenuto reso pubblico, ovvero accessibile anche a soggetti diversi da una ristretta cerchia di "amici", può essere oggetto di valutazione disciplinare più severa, proprio perché idoneo a raggiungere un gruppo indeterminato di persone.
  • Carattere offensivo o diffamatorio: Post, commenti o immagini che denigrano direttamente l’azienda, i colleghi o i superiori, possono essere qualificati come diffamanti ai sensi dell’art. 595 c.p. e determinare il venir meno del rapporto fiduciario tra le parti.
  • Collegamento diretto con l’azienda: Affinché il licenziamento sia considerato legittimo, è necessario che il contenuto pubblicato sia riconducibile, in modo più o meno esplicito, all’attuale datore di lavoro o al contesto lavorativo. In assenza di collegamenti chiari, i giudici potrebbero escludere la rilevanza disciplinare.
  • Effettivo danno reputazionale: La giurisprudenza richiede che le pubblicazioni siano effettivamente idonee a ledere l’immagine aziendale. È richiesto che ci sia potenziale di danno concreto, non basta un sospetto generico.
Il licenziamento, dunque, è ritenuto legittimo quando il contenuto social supera la soglia del diritto di critica, sfociando in condotte gravemente lesive del rapporto fiduciario. Tra i riferimenti normativi di rilievo: Statuto dei Lavoratori (L. 300/1970) e Codice Civile (artt. 2105, 1175, 1375).

Diffamazione, contenuti offensivi e perdita del rapporto fiduciario, l’orientamento della Cassazione

Secondo la Corte di Cassazione, la pubblicazione su Facebook o Instagram di commenti, immagini o video gravemente offensivi nei confronti della società datrice di lavoro integra gli estremi della diffamazione (Ordinanza n. 12142/2024, Sent. n. 10280/2018). È stato più volte ribadito che il mezzo utilizzato, ossia il social network, comporti una diffusione potenzialmente incontrollata del messaggio, amplificando così la portata lesiva della condotta.

  • Diffamazione aggravata: È configurabile quando il messaggio offensivo è idoneo ad arrivare a un pubblico indeterminato. Anche post destinati agli "amici" su Facebook possono rientrare in tale categoria, vista la facile condivisione dei contenuti.
  • Lesione del vincolo fiduciario: La Cassazione ha chiarito come la rottura del rapporto di fiducia non richieda la reiterazione delle condotte: anche un singolo comportamento può vulnerare irreparabilmente l’equilibrio tra le parti, giustificando il licenziamento per giusta causa (vedi Trib. di Palermo, sent. 3453/2019).
  • Prova e responsabilità: Il datore di lavoro è sempre tenuto a fornire prova della giusta causa, anche attraverso screenshot, testimonianze e documentazione acquisita secondo le regole del processo civile e della privacy.
L’orientamento dei giudici è rigido anche rispetto a contenuti pubblicati con toni ironici o apparentemente goliardici: se possono danneggiare la reputazione aziendale, restano sanzionabili. Solo in presenza di contenuti estranei all’attuale datore di lavoro o motivati da precedenti illeciti dimostrati, la Cassazione esclude la sussistenza di una giusta causa.

Il diritto di critica del dipendente: limiti e confini dell’espressione sui social

La libertà di manifestazione del pensiero, riconosciuta dall’art. 21 della Costituzione e dall’art. 1 dello Statuto dei Lavoratori, trova una significativa applicazione anche nell’ambito digitale. Tuttavia, tale diritto non è assoluto e incontra limiti precisi, soprattutto quando incide sull’onore e sulla reputazione della controparte.

  • Continenza sostanziale e formale: La giurisprudenza richiede che la critica sia basata su fatti veritieri e che sia espressa con linguaggio civile, senza ricorrere a insulti, termini denigratori o illazioni non comprovate.
  • Pertinenza e attinenza: Il contenuto critico dovrebbe riferirsi a questioni lavorative effettive e non invadere la sfera personale del datore di lavoro o dei colleghi.
  • Proporzionalità: La contestazione deve risultare proporzionata ai fatti, senza eccessi o generalizzazioni che possano incidere sull’integrità professionale o personale.
Quando il diritto di critica viene meno ai limiti illustrati, si configura l’abuso, rendendo la condotta disciplinarmente rilevante. Spetta al datore di lavoro fornire la prova della violazione, mentre il lavoratore, in giudizio, può dimostrare la verità sostanziale dei fatti e la correttezza delle proprie modalità espositive.

Il rispetto di questi parametri consente di esprimere dissenso o segnalare inefficienze senza per ciò solo incorrere in sanzioni disciplinari, come confermato dalla recente sentenza della Corte d’Appello di Milano n. 590/2023.

Chat private, gruppi riservati e sfera della corrispondenza: tutela della privacy e limiti disciplinari

I messaggi scambiati all’interno di chat riservate (come WhatsApp o gruppi chiusi su Facebook) godono di una protezione rafforzata sotto il profilo della privacy, in quanto assimilabili alla corrispondenza privata ai sensi dell’art. 15 della Costituzione. La Corte di Cassazione (n. 5334/2025) ha precisato che i commenti offensivi espressi esclusivamente in tali ambiti non integrano, salvo eccezioni, una giusta causa di licenziamento.

  • Limiti di riservatezza: La tutela permane soltanto se la conversazione rimane realmente circoscritta e non viene diffusa all’esterno, anche accidentalmente.
  • Divulgazione non autorizzata: Qualora il contenuto venga portato fuori dal gruppo privato, anche involontariamente, esso può essere valutato come pubblico e quindi sanzionabile.
  • Ambito sindacale e riservatezza: I messaggi scambiati in chat di organizzazioni sindacali sono generalmente considerati corrispondenza protetta, a condizione che il gruppo sia ristretto e vi sia espressa volontà di non diffusione.
Va però ricordato che, se dalla corrispondenza dovesse emergere la violazione di obblighi di riservatezza (come la condivisione di segreti aziendali), il datore di lavoro può comunque attivare il percorso disciplinare, a prescindere dalla tutela della privacy interna alla chat

Comportamenti extra lavorativi, assenze ingiustificate e rilievo disciplinare dei contenuti social

L’obbligo di fedeltà e correttezza vincola il dipendente anche nella sfera privata. Azioni compiute al di fuori dell’orario di servizio, quali la pubblicazione di contenuti sui social durante periodi di malattia o permesso, possono determinare responsabilità disciplinare se contrastano con comunicazioni ufficiali fornite al datore di lavoro. Diversi Tribunali (Napoli, Benevento, Roma) hanno confermato la liceità del licenziamento in presenza di foto che ritraevano lavoratori apparentemente impediti o in vacanza durante assenze per malattia o permesso studio, laddove tale comportamento abbia minato la fiducia nel rapporto.

  • Rilevanza disciplinare: La documentazione social può essere utilizzata dal datore per dimostrare incongruenze e giustificare provvedimenti, purché raccolta da profili pubblici.
  • Condotte incompatibili: Attività incompatibili con lo stato dichiarato (es. allenamenti durante la malattia) legittimano il recesso unilaterale.
Tali valutazioni si applicano anche ai comportamenti non direttamente collegati alla prestazione lavorativa, ma capaci di riflettersi sull’immagine e la reputazione aziendale o pregiudicare la continuità del rapporto fiduciario.
Leggi anche