Il pomodoro cinese in Italia ha vissuto ascesa e declino tra crisi delle importazioni, sfide di mercato globale, controlli di qualit, rischi di contraffazione e il rafforzarsi della filiera italiana.
Nei primi nove mesi dell'anno si è verificato un drastico calo nelle esportazioni di pomodori trasformati dalla Cina all'Italia: il valore totale è passato da 75 milioni a meno di 13 milioni di dollari. Questa decisa frenata rappresenta uno dei cambiamenti nei flussi internazionali di un prodotto che, negli ultimi anni, aveva registrato una presenza molto più massiccia nel mercato italiano.
I motivi di questo cambiamento vanno ben oltre la semplice domanda e offerta: convergono dinamiche legate alla qualità percepita, all'implementazione di nuove regole e alla crescente attenzione verso la tracciabilità dei prodotti. In questo contesto si inserisce la consapevolezza dei consumatori italiani, supportata da operatori di settore, media e associazioni di categoria decisi a garantire una maggior tutela del made in Italy e della salute pubblica. Il presente scenario riflette, infatti, una trasformazione profonda che investe sia le logiche del commercio internazionale sia i valori alla base dell'agroalimentare europeo.
L'importazione del concentrato di pomodoro cinese in Italia ha origini recenti, ma ha conosciuto un'ascesa rapida dopo il 2010, grazie a una produzione orientale sempre più industrializzata e competitiva dal punto di vista dei costi. Le prime tensioni sono nate già agli inizi degli anni 2020, quando grandi quantitativi di concentrato provenienti principalmente dalla regione cinese dello Xinjiang hanno iniziato a saturare il mercato europeo. In quel periodo, la capacità produttiva asiatica si attestava su livelli record, favorita da investimenti pubblici in tecnologie e infrastrutture agricole.
Nel 2021 si sono registrate le prime inchieste sull'origine della materia prima utilizzata in prodotti venduti come italiani, sfociando in scandali e sequestri di merce con etichette ingannevoli. Azioni di controllo, guidate soprattutto dai carabinieri per la tutela agroalimentare, hanno evidenziato casi di pomodori Made in Italy confezionati però con materie prime cinesi. Queste vicende hanno cambiato la percezione generale e innescato una risposta coordinata da parte di coltivatori, industrie e consumatori.
Nel 2024 il valore dei pomodori processati esportati dalla Cina era superiore ai 75 milioni di dollari nei primi nove mesi, mentre l'anno seguente si è assistito a un autentico crollo del 76% nelle vendite verso il mercato italiano. Un calo simile, pari al 67%, è stato osservato anche nel resto dell'Europa, segnando una rottura strutturale nei rapporti commerciali. Il crollo delle importazioni non si è tuttavia limitato all'Italia, ma ha interessato anche altri Paesi scatenando onde d'urto su tutto il comparto. Le scorte non smaltite nei magazzini cinesi sono cresciute fino a coprire sei mesi di esportazioni, equivalenti a circa 600-700mila tonnellate, generando nuove tensioni sui prezzi globali.
Nell'ambito della filiera italiana, questi eventi hanno favorito una mobilitazione per la difesa della qualità, supportata da realtà come Coldiretti, che rivendicano trasparenza sull'origine delle materie prime e attivazione di dazi a tutela delle produzioni nazionali. Una progressione che ha permesso all'Italia di riconquistare il secondo posto a livello mondiale nei Paesi trasformatori di pomodoro, dietro gli Stati Uniti e davanti alla stessa Cina, con una produzione di 5,8 milioni di tonnellate. Nel segmento del concentrato, tuttavia, il confronto resta serrato, con la penisola che si distingue per qualità superiore riconosciuta dal mercato ma deve fronteggiare i costi più elevati rispetto ai concorrenti esteri.
Il calo delle importazioni della salsa di pomodoro cinese va interpretato attraverso diverse chiavi di lettura, a partire dal riassetto del mercato globale. La saturazione dei mercati destinatari, come l'Europa Occidentale, ha portato a un riequilibrio dei flussi commerciali, mentre l'aumento di capacità produttiva in altre aree - tra cui California, Spagna, Portogallo ed Egitto - ha rafforzato la concorrenza internazionale.
A rendere meno conveniente il concentrato cinese ha concorso la svolta qualitativa richiesta dai consumatori italiani ed europei. La crescente attenzione per l'origine e la tracciabilità ha portato buyer e distributori ad adottare standard sempre più alti, preferendo prodotti con ingredienti locali certificati. I principali operatori del settore hanno sottolineato come, negli ultimi tempi, non si tratti semplicemente di una gara tra Paesi ma di una rivendicazione delle garanzie di trasparenza e reputazione a tutela dell'intera filiera.
Un altro fattore determinante è stato l'adeguamento e l'applicazione di nuove normative, sia a livello italiano sia europeo. L'unione doganale europea e la revisione di alcuni regolamenti come quello sulle etichettature di origine (Reg. UE n. 1169/2011) hanno consentito controlli più puntuali e identificazione delle materie prime, scoraggiando pratiche fraudolente. Sul fronte normativo, l'attivazione di nuovi dazi sui prodotti in arrivo dalla Cina ha altresì contribuito a ridurre l'attrattività commerciale del loro concentrato, a fronte di costi di importazione più alti e di una maggiore rigidità delle verifiche igienico-sanitarie.
Negli ultimi anni, la regione dello Xinjiang è diventata il fulcro del comparto cinese del pomodoro, grazie a una combinazione di coltivazioni estensive, capacità industriale crescente e forti investimenti pubblici. Tuttavia, il drastico calo della domanda europea e italiana ha trasformato quella che prima sembrava essere una strategia di crescita vincente in un dilemma legato alla gestione delle eccedenze. I silos della provincia sono oggi pieni di concentrato invenduto, progettato per alimentare catene del valore ora meno ricettive o in parte autosufficienti.
La situazione ha provocato significativi squilibri interni: numerose strutture produttive nate per sostenere l'export sono ora sottoutilizzate, costringendo sia autorità locali sia aziende private a studiare nuove politiche di smaltimento delle scorte. Si osserva così uno spostamento dell'offerta verso altri mercati globali, benché - complice la sovrapproduzione internazionale - non manchino le difficoltà anche in contesti extraeuropei. Il fenomeno evidenzia come sovraccapacità produttiva senza un adeguato studio della domanda possa rapidamente trasformarsi in un problema economico e politico, anziché in un vantaggio competitivo sostenibile nel tempo.
La drastica riduzione degli ingressi di concentrato straniero ha rappresentato una svolta per la filiera nazionale. Coltivatori, aziende trasformatrici e operatori del settore hanno potuto riorientare il mercato verso produzioni locali e rafforzare una strategia basata su qualità, filiera corta e sostenibilità. Coldiretti e altre associazioni di rappresentanza hanno ribadito l'importanza della salvaguardia della trasparenza sulle etichette e la lotta ai possibili inganni legati a errata dichiarazione di origine.
Il settore si è quindi mosso per rispondere con energia alle nuove esigenze dei consumatori e del mercato internazionale, puntando su:
Uno degli effetti collaterali più preoccupanti delle dinamiche tra mercati globali e filiere locali è rappresentato dalla crescita del fenomeno della contraffazione alimentare. Sono numerose le operazioni di sequestro - alcune particolarmente rilevanti anche nel 2025 - che hanno coinvolto passate e concentrati provenienti dall'estero, ma venduti come italiani. Il rischio principale consiste nell'inganno al consumatore, che potrebbe acquistare prodotti dichiarati come Made in Italy e invece realizzati con materie prime di diversa provenienza, non sempre rispettose degli elevati standard UE.
Oltre al danno economico a carico dei produttori, ciò comporta potenziali impatti sulla salute pubblica. Numerosi casi hanno visto l'arrivo sui mercati europei di alimenti contenenti residui di fitofarmaci vietati, micotossine o sostanze tossiche provenienti da processi produttivi non conformi. La normativa europea, come il Regolamento CE n. 178/2002, pone l'accento sulla sicurezza e la tracciabilità alimentare, ma la complessità del commercio globale rende la sua applicazione a volte ostica e soggetta a elusione.