La Manovra Finanziaria 2026 analizzata nei suoi limiti strutturali, tra assistenzialismo e carenza di misure per lo sviluppo. Focus su fisco, lavoro, welfare e il vero nodo: lassenza di investimenti strategici.
La Legge di Bilancio 2026 segna un nuovo capitolo nell’azione economica del governo italiano, che mira a rispondere a esigenze sociali pressanti in un contesto di risorse limitate e scenari globali sempre più complessi. L’obiettivo principale dichiarato è quello di garantire la sostenibilità dei conti pubblici, avvicinandosi ai parametri imposti dall’Unione Europea e affrontando, nel contempo, le necessità di famiglie, imprese e fasce deboli della popolazione.
Il quadro economico odierno è segnato da incertezze dovute a tensioni geopolitiche – con riflessi importanti sul costo dell’energia e sull’andamento dei mercati – e dall’effetto dei nuovi dazi sulle esportazioni italiane, che rallentano la crescita e alimentano segnali di preoccupazione per l’export. Le previsioni degli industriali, pur mostrando qualche segnale positivo, restano prudenti e condizionate dal clima economico internazionale.
A fronte di questa realtà, la manovra finanziaria 2026 viene costruita con un bilancio tra assistenza sociale e necessità di sviluppo, dovendo fare i conti con una disponibilità di circa 16 miliardi, ripartiti tra tagli alla spesa dei ministeri e nuove entrate tributarie. L’equilibrio da trovare tra il sostegno alle famiglie, la lotta alla povertà e la crescita economica rappresenta il nodo cruciale attorno a cui ruota l’intera legge di bilancio di quest’anno.
Tra le principali criticità emerse dal dibattito pubblico e dagli operatori economici, si segnala un persistente orientamento redistributivo, con una forte impronta assistenziale: le principali risorse sono infatti dedicate a bonus, detrazioni e misure di welfare, a discapito di politiche strutturali di sviluppo.
Il pacchetto di interventi favorisce le famiglie e il sostegno al reddito, aumentando il valore dei bonus già esistenti ma senza una strategia chiara di modernizzazione economica. Gli stessi industriali, in diverse occasioni, hanno evidenziato che il modello attuale, sebbene capace di alleggerire la pressione fiscale in alcune fasce della popolazione, non genera effetti strutturali sulla crescita del PIL. Restano infatti limitate le iniziative capaci di imprimere un salto di qualità all’apparato produttivo nazionale.
Altro aspetto rilevante è rappresentato dalla frammentazione della spesa. L’allargamento delle misure "a pioggia", ovvero la distribuzione di scarse risorse tra molti, rischia di insoddisfare tutti e di non produrre effetti tangibili a lungo termine. È stato inoltre sottolineato che misure come la quinta rottamazione delle cartelle fiscali, oltre a non avere prodotti risultati soddisfacenti nelle precedenti edizioni, rischiano di penalizzare i contribuenti corretti invece che promuovere la compliance fiscale.
Il tema della mancanza di una chiara visione di sviluppo è rimasto al centro del confronto politico ed economico: la legge di bilancio attuale appare centrata sul presente, ma poco orientata a rafforzare le condizioni per una crescita sostenibile nel medio termine. Questo punto viene rafforzato dalle richieste rimaste inevase di investimenti strutturali nell’innovazione, nelle infrastrutture e nell’industria, spesso rimandate e non protagoniste della manovra di quest’anno.
L’impianto della legge di bilancio 2026 si articola su azioni chiave che mirano alla redistribuzione e al sostegno immediato. Di seguito una sintesi delle principali misure:
Permane quindi una certa insoddisfazione tra gli operatori economici e sociali rispetto alla capacità di questa legge di bilancio di garantire sviluppo, occupazione e innovazione tecnologica. Si sente la mancanza di interventi sistemici e lungimiranti in materia di infrastrutture, digitalizzazione e aggiornamento del tessuto industriale nazionale.
La riduzione dell’Irpef rappresenta senza dubbio la misura di maggior peso politico, ma non sempre con la portata effettiva auspicata. L’intervento, indirizzato sui redditi tra 28.000 e 50.000 euro, prevede un vantaggio massimo di circa 440 euro annui per contribuente. La portata limitata dell’agevolazione – circa poco più di un caffè al giorno – solleva dubbi tra gli analisti sull’impatto emulativo in termini di rilancio dei consumi.
La riforma avrebbe potuto avere un respiro più ampio se la platea beneficiaria – come suggerito dagli operatori del settore produttivo – fosse stata allargata fino a 60 mila euro di reddito. Tuttavia, il costo stimato della misura (tra i 2,5 e i 5 miliardi a seconda dell’estensione) ha imposto al legislatore di fermarsi alla soglia dei 50mila euro, lasciando insoddisfatta una consistente parte del ceto medio. Anche il rapporto tra riduzione fiscale e stimolo alla crescita resta debole in assenza di ulteriori leve di sviluppo, come già evidenziato dal Rapporto Cida-Censis.
Le misure di rottamazione delle cartelle, invece, rischiano di apparire come meri palliativi – essendo alla quinta edizione dal 2016 – e non armano la pubblica amministrazione degli strumenti necessari per puntare sulla legalità e la concorrenza leale. La platea dei contribuenti virtuosi può sentirsi disincentivata, mentre la leva della selettività appare ancora poco incisiva rispetto agli obiettivi di compliance fiscale.
Il capitolo lavoro della manovra si basa soprattutto sulla detassazione degli aumenti retributivi collegati ai rinnovi dei contratti collettivi nazionali e sui benefici fiscali su straordinari, lavoro notturno e lavoro a turni. L’imposta sostitutiva – differenziata tra il 5 e il 15% secondo il livello di reddito e la tipologia di prestazione – mira a rafforzare il potere d’acquisto, specialmente per lavoratori con basso e medio reddito.
Interessante inoltre il tentativo di introdurre meccanismi automatici di adeguamento salariale all’inflazione (Ipca), nel caso di mancato rinnovo del Ccnl entro 24 mesi dalla scadenza, con un tetto massimo di rivalutazione pari al 5%. Tuttavia, tali misure, seppur utili nel breve periodo, restano limitate nella portata strutturale. L’ampia presenza di detrazioni transitorie e bonus speciali penalizza chi si trova nelle situazioni più dinamiche o nei settori dove la produttività è in crescita.
Un altro tema critico irrisolto riguarda la sostenibilità del sistema previdenziale: la sterilizzazione selettiva degli scatti dell’età pensionabile accontenta alcune categorie di lavoratori prossimi alla pensione, ma rischia di rendere meno efficace la programmazione futura della spesa sociale. Permangono le criticità del lavoro discontinuo e la scarsità di incentivi efficaci per l’occupazione giovanile e femminile, che richiederebbero interventi più decisi in termini di formazione e politiche attive del lavoro.
Nella sfera del welfare familiare, la manovra prevede una serie di misure destinate ad aumentare la protezione sociale: si conferma il bonus per le mamme con almeno due figli portando l’incentivo fino a 60 euro, si estende il congedo parentale facoltativo all’80% dello stipendio e si tenta una riforma delle detrazioni tramite il quoziente familiare.
Questi interventi, seppur apprezzabili nell’immediato, non sciolgono i principali nodi strutturali che continuano ad affliggere il sistema di welfare italiano. La platea dei beneficiari resta limitata e molte agevolazioni risultano temporanee o sottoposte a limiti reddituali troppo stringenti per generare un vero effetto redistributivo. Inoltre, il bonus ristrutturazioni sulla casa viene prorogato ma con criteri di selettività che rischiano di penalizzare proprio le fasce di giovani e famiglie in maggiore difficoltà nell’accesso alla prima abitazione.
In ambito sanitario, pur segnalando un incremento delle risorse e l’obiettivo di ridurre le liste d’attesa, la sensazione degli operatori e degli utenti è che la misura, se non inserita in un quadro di revisione strutturale dell’intero sistema, non riesca a risolvere le criticità che da anni limitano il SSN.
Se la legge di bilancio 2026 mostra una spiccata vocazione assistenziale, altrettanto evidente è la scarsità di risorse e iniziative dedicate a innovazione, infrastrutture e rilancio industriale. Il tessuto produttivo italiano, già messo a dura prova da anni di crisi e dalla competizione internazionale feroce, attendeva segnali più forti in termini di piano industriale e investimenti infrastrutturali.
Le misure relative alle imprese risultano limitate alla conferma di incentivi esistenti, come la proroga dell’Ires premiale e l’avvio della "Transizione 6.0", con criteri ispirati a programmi precedenti. Tuttavia, la mancanza di una vera strategia di lungo periodo pesa sull’attrattività e sulla competitività delle aziende italiane nel contesto europeo. Il rallentamento degli investimenti in automazione, ricerca e digitalizzazione rischia di accentuare il distacco dai competitor internazionali.
Nel settore delle infrastrutture, progetti di interesse nazionale – come il bypass ferroviario di Trento – sono spesso bloccati da iter burocratici complessi o finanziamenti incerti. Né va dimenticato il tema dell’automotive, ancora in forte crisi, che necessiterebbe di interventi specifici e di un sostegno strutturale per una reale transizione verso l’auto elettrica o a basse emissioni, soprattutto dal lato delle imprese e delle filiere produttive.
L’impressione generale è che le istanze del mondo industriale e tecnologico non abbiano trovato sufficiente ascolto, lasciando l’Italia in una posizione di rincorsa rispetto agli altri partner europei.
Osservando i contenuti e la struttura della Legge di Bilancio 2026 emerge un atteggiamento cauto e difensivo, più attento alla gestione delle urgenze che alla costruzione delle condizioni per la ripresa e lo sviluppo. Sarebbero stati necessari interventi più incisivi in materia di investimenti produttivi, riqualificazione industriale e innovazione tecnologica, capaci di agire da moltiplicatori della crescita potenziale del Paese.
Il sistema economico ha segnalato la necessità di politiche fiscali più eque e ampie, una revisione profonda dei meccanismi redistributivi e una maggiore coerenza nell’utilizzo dei fondi pubblici per sostenere la competitività, la sostenibilità e la coesione sociale. Rimane aperto il nodo dell’assenza di un piano strategico per infrastrutture e industria, capace di rilanciare la produttività e il lavoro qualificato.
Per assicurare una crescita stabile e sostenibile servirebbe, dunque, uno sguardo di più lungo periodo, che superi la logica emergenziale e sappia valorizzare le opportunità legate alla trasformazione digitale e alla transizione ecologica, ancora poco implementate nella manovra di quest’anno.