La sentenza storica sul caso PFAS segna un punto di svolta: 300 famiglie risarcite e gravi condanne ai responsabili della contaminazione. Cause, impatti, reazioni della societŕ e le prospettive per ambiente e salute.
Nel panorama italiano, la recente pronuncia della Corte d'Assise di Vicenza è un punto di svolta nella gestione giuridica e sociale della contaminazione PFAS in Italia risarcimento. Le sentenze emesse contro gli ex dirigenti di Miteni hanno riconosciuto responsabilità e provocato un atteso dibattito sulla tutela dell'ambiente e della salute pubblica.
L'evento assume rilievo non solo per la sua portata risarcitoria, ma soprattutto per l'impatto che la decisione avrà in futuro sul riconoscimento dei danni sofferti da cittadini, enti pubblici e comunità locali, ai quali sono stati accordati risarcimenti milionari. Questo verdetto rappresenta una presa di posizione delle istituzioni rispetto alla trasparenza, tracciando un modello giudiziario europeo sulla gestione degli inquinanti persistenti.
La storia che porta alla sentenza del 2025 inizia nel 2013, quando le autorità ambientali regionali rilevano concentrazioni elevate di sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) nelle acque destinate al consumo umano tra le province di Vicenza, Padova e Verona. La società Miteni, fondata nel 1965 e storicamente dedita alla produzione di intermedi chimici e derivati fluorurati, è individuata come fonte principale della dispersione. I PFAS, detti anche "sostanze eterne", sono composti chimici altamente persistenti sia nell'ambiente che negli organismi umani, utilizzati in svariate applicazioni industriali e domestiche.
La dimensione del fenomeno in Veneto è straordinaria, con un'area di più di 300.000 residenti esposta e la seconda falda acquifera d'Europa compromessa: secondo dati processuali, la superficie coinvolta supera i 100 km². Studi regionali e monitoraggi epidemiologici collegano l'esposizione prolungata ai PFAS con rischi di patologie gravi, spingendo le autorità a misure d'urgenza come la chiusura dei pozzi contaminati e l'installazione di filtri a carboni attivi per la potabilizzazione.
Lo stabilimento di Trissino, al centro dell'indagine, aveva visto il susseguirsi di diversi proprietari: dal gruppo Marzotto (RiMar), a EniChem e Mitsubishi, fino alla cessione a un fondo internazionale. Il contesto complesso societario ha reso difficile la ricostruzione delle responsabilità, ma le indagini ambientali hanno documentato una malagestione progressiva degli effluenti, la mancata comunicazione agli enti preposti e l'insufficiente controllo sulla dispersione di sostanze tossiche.
I segnali di pericolo, già noti dagli anni Novanta, non hanno portato ad alcuna bonifica preventiva: solo nel 2013, a seguito della divulgazione dei primi studi scientifici e pressioni dei cittadini organizzati, si ha l'emersione del caso. Le inadeguatezze di controllo e di gestione hanno aggravato la crisi, lasciando alle istituzioni e alla magistratura la responsabilità di intervenire.
Il procedimento presso il tribunale di Vicenza è stato uno dei più estesi e articolati nella storia dei reati ambientali italiani. Gli imputati, in totale quindici fra dirigenti e amministratori di Miteni, Mitsubishi Corporation e ICIG, erano accusati di una serie di reati gravi:
I giudici hanno inoltre riconosciuto la responsabilità civile per enti regionali, gestori dell'acqua e associazioni di categoria, mentre la responsabilità in solido impone alle società succedutesi nella gestione di Miteni di farsi carico della bonifica. La motivazione della sentenza ha ribadito come le pratiche gestionali negligenti abbiano direttamente causato il danno ambientale e la contaminazione di vasta portata, creando un precedente nella regolamentazione della responsabilità ambientale.
L'esposizione cronica ai PFAS ha avuto conseguenze sul versante sanitario e sociale. Indagini epidemiologiche indipendenti e documentazione presentata nelle aule di giustizia hanno messo in luce un nesso tra la presenza di questi composti e l'incremento di malattie croniche, disfunzioni ormonali, malattie renali e cardiovascolari e alcuni tipi di cancro, soprattutto in fasce pediatriche e femminili.
Uno studio pubblicato su "Environmental Health" ha stimato fino a 3.800 decessi aggiuntivi per patologie collegate all'esposizione a PFAS nel solo bacino veneto tra 1980 e 2014. I livelli di PFOA nel sangue di soggetti esposti risultano essere anche 100 volte superiori ai valori considerati accettabili da rapporti USA e OMS.
In campo sociale, gli effetti sono stati devastanti: famiglie costrette a modificare abitudini quotidiane, perdita di fiducia nelle istituzioni e sensazione di insicurezza permanente hanno caratterizzato la vita di migliaia di residenti. Mamme, genitori e abitanti hanno testimoniato come la consapevolezza del danno sia cresciuta nel tempo, creando una forte domanda di trasparenza, informazione e monitoraggio pubblico.
La scoperta della contaminazione ha dato impulso a una mobilitazione senza precedenti con tanto di suggerimenti su come eliminare i PFAS dall'acqua. Gruppi come le "Mamme No PFAS", Legambiente, Greenpeace e ISDE - Medici per l'Ambiente hanno svolto un'azione sinergica in difesa della salute collettiva e nel promuovere il riconoscimento dei danni.
Le principali iniziative dei comitati si sono articolate in:
Uno degli sviluppi più rilevanti della vicenda giudiziaria riguarda il riconoscimento giuridico della correlazione tra esposizione professionale ai PFAS e l'insorgenza di patologie gravi nei lavoratori della ex Miteni. Nel maggio 2025, per la prima volta in Italia, la sezione Lavoro del Tribunale di Vicenza ha riconosciuto un risarcimento agli eredi di un ex dipendente, motivando il nesso causale con l'esposizione a PFOA e PFOS, composti già vietati nell'Unione Europea perché classificati rispettivamente come certo e probabile cancerogeno dall'Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro.
Questo precedente apre nuovi scenari per centinaia di operai e tecnici che hanno operato nel sito di Trissino e nei poli chimici italiani:
L'attuazione della bonifica nelle zone contaminate richiede competenze tecniche avanzate e investimenti ingenti, in ragione della peculiare resistenza dei PFAS alle tecniche convenzionali di depurazione. Le autorità regionali, in concerto con ARPAV e altri enti, hanno proceduto per fasi implementando barriere fisiche (palancolate) e sistemi di filtrazione per impedire l'ulteriore espansione delle sostanze nelle falde.
I principali ostacoli riscontrati includono: