Nonostante l'introduzione di nuove leggi e riforme, il Servizio Sanitario Nazionale continua a confrontarsi con problemi quotidiani.
Al di là le numerose leggi introdotte negli ultimi anni, il Servizio Sanitario Nazionale continua a mostrare segni evidenti di difficoltà. Le problematiche strutturali, che comprendono le lunghe liste d’attesa, la cronica carenza di personale sanitario e le disuguaglianze nell’accesso alle cure tra le regioni, persistono e sembrano aggravarsi. A dispetto delle buone intenzioni, i provvedimenti legislativi finora adottati non sono riusciti a invertire questa tendenza. Per molti osservatori, il sistema sanitario è rimasto fermo, vittima di inefficienze burocratiche, mancanza di fondi adeguati e una gestione frammentaria che ostacola il progresso.
La questione delle liste d’attesa rappresenta uno dei problemi più visibili per i cittadini. I tempi per ottenere visite specialistiche, esami diagnostici e interventi chirurgici spesso si estendono oltre il limite del tollerabile, spingendo molti pazienti verso il settore privato o, nei casi più gravi, rinunciando alle cure necessarie. Anche se alcune regioni abbiano adottato misure per ridurre queste attese, i risultati sono stati molte volte insufficienti, aggravati dalla mancanza di personale e risorse adeguate. Approfondiamo in questo articolo:
Questa situazione compromette la qualità dell’assistenza sanitaria e aumenta il carico di lavoro per il personale rimasto. La distribuzione del personale è altamente disomogenea: regioni più ricche, come la Lombardia, possono contare su risorse maggiori rispetto ad aree più svantaggiate, come alcune zone del Mezzogiorno che alimenta una disuguaglianza nell’accesso ai servizi sanitari.
La sanità italiana si trova a un bivio: continuare a gestire le emergenze senza affrontare le cause strutturali dei problemi, oppure intraprendere una riforma coraggiosa e a lungo termine.
Nonostante le difficoltà, è possibile immaginare una riforma strutturale del SSN che possa rispondere efficacemente alle sfide attuali. Secondo il professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, intervenuto sul Corriere della Sera, il sistema potrebbe essere riorganizzato attraverso un modello a tre livelli, incentrato su una maggiore assistenza territoriale. I distretti sanitari sarebbero il primo livello, coordinando i servizi di prevenzione e cura primaria attraverso un ruolo potenziato dei medici di famiglia. Questi ultimi dovrebbero essere supportati da team multidisciplinari che includano infermieri, fisioterapisti e psicologi.
Un secondo livello sarebbe costituito dagli ospedali di comunità, strutture intermedie gestite principalmente da infermieri, destinate a pazienti che necessitano di cure continuative ma non intensive. Infine, gli ospedali per acuti si concentrerebbero sui casi più gravi, liberati dal sovraccarico causato da ricoveri che potrebbero essere gestiti nei primi due livelli. Questo modello permetterebbe di ridurre la pressione sui pronto soccorso, migliorare la qualità dell’assistenza e garantire una maggiore prossimità delle cure ai cittadini.
Realizzare una riforma di tale portata richiederebbe un investimento stimato in circa 40 miliardi di euro. Questi fondi verrebbero recuperati attraverso una riduzione degli sprechi, una migliore allocazione delle risorse e un maggiore controllo sulla spesa farmaceutica. Ma il successo di una riforma strutturale dipenderebbe in larga misura dalla volontà politica di investire in modo deciso nel settore sanitario, considerandolo non come un costo, ma come un investimento nel benessere e nella coesione sociale.
Un elemento decisivo sarebbe la creazione di incentivi per il personale sanitario, con miglioramenti salariali e contrattuali volti a rendere più attrattivo il lavoro nel SSN. Parallelamente, sarebbe necessario semplificare la burocrazia e aumentare la trasparenza nella gestione dei fondi, garantendo che ogni euro investito produca un impatto tangibile sulla qualità dei servizi offerti.