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Se vengo demansionato quando posso rifiutare l'abbassamento di livello senza essere licenziato?

di Marianna Quatraro pubblicato il
Abbassamento di livello

Affrontare il demansionamento significa interrogarsi su diritti, doveri e possibili conseguenze: dal contesto normativo alle condizioni per opporsi senza rischiare il licenziamento.

Quando un lavoratore si trova di fronte a una proposta di cambio mansioni verso un livello inferiore, sorgono dubbi legati al diritto di rifiutare tale modifica e alle possibili conseguenze occupazionali. La scelta tra accettare una posizione ridimensionata o rischiare un recesso del rapporto di lavoro solleva interrogativi sia sul piano umano che giuridico.

In questo contesto, è essenziale comprendere regole, limiti e tutele previsti dalla normativa, valutando quando il rifiuto di nuove mansioni sia legittimo e quali rischi si corrano, con attenzione particolare alle recenti pronunce della Corte di Cassazione che hanno delineato i nuovi confini dell'istituto.

Cos'è il demansionamento e quando può essere proposto dal datore di lavoro

Il termine demansionamento indica l'assegnazione a compiti di livello inferiore rispetto a quelli originari previsti dal contratto. Tale situazione può riguardare tanto le responsabilità quanto la retribuzione, incidendo su motivazione, status e sviluppo professionale. 
La regola generale, sancita dall'art. 2103 del Codice Civile, prevede che il lavoratore debba essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a mansioni equivalenti. Tuttavia, la legge e la recente giurisprudenza riconoscono precisi casi in cui il datore di lavoro può proporre un adeguamento verso il basso:

  • Quando intervengono modifiche organizzative che incidono in modo strutturale sull'organico e sui ruoli;
  • Soppressione della posizione lavorativa: tipica nei casi di crisi aziendali o riorganizzazioni, dove il ruolo del dipendente svanisce e vanno esplorate tutte le opzioni per preservare il posto di lavoro;
  • Applicazione di contratti collettivi nazionali, che talvolta prevedono forme di mobilità o ricollocamento interno;
  • Mansioni inferiori offerte in alternativa al licenziamento per motivi oggettivi e non discriminatori.
Il demansionamento, in questi casi, deve essere motivato da comprovate esigenze aziendali e risultare una misura non arbitraria, adottata nel rispetto della categoria di appartenenza (es. impiegati, quadri). La legittimità dell'atto va sempre rapportata alla presenza o meno di giustificate ragioni produttive e organizzative, nonché all'interesse superiore alla conservazione del posto di lavoro.

Il principio del repêchage: obblighi di ricollocamento prima del licenziamento

Prima di ricorrere all'estrema soluzione del licenziamento, la legislazione italiana impone al datore di lavoro un preciso dovere: valutare ogni ipotesi di ricollocamento del dipendente all'interno dell'organigramma aziendale. Questo obbligo, noto anche come repêchage, è centrale nel diritto del lavoro moderno.

La giurisprudenza più aggiornata (ordinanza Cassazione 19556/2025) ha chiarito che il datore non deve solo cercare posizioni equivalenti, ma esplorare anche quelle di livello inferiore - purché compatibili con la categoria legale dell'interessato. L'obbligo di repêchage impone quindi:

  • Accuratezza nella ricerca di ogni mansione disponibile;
  • Serietà della proposta: l'alternativa offerta deve essere reale e compatibile con le capacità e il profilo professionale del lavoratore;
  • Rispetto della stessa categoria giuridica (dirigente, quadro, impiegato, operaio);
  • Riscontro concreto dell'impossibilità di ricollocamento prima di procedere al recesso.
Tale principio nasce per garantire un equilibrio tra esigenze produttive aziendali e il diritto del lavoratore alla continuità occupazionale. Il licenziamento è considerato l'ultima ratio e solo se ogni altra soluzione, inclusa quella dell'assegnazione a un ruolo meno qualificato, risulti impraticabile o rifiutata dal dipendente.

Le condizioni per rifiutare il demansionamento: quando il rifiuto è legittimo

La possibilità di opporsi a un cambio di mansioni esiste, ma solo in presenza di precisi presupposti di illegittimità o di grave pregiudizio personale e professionale. La legittimità del rifiuto deve fondarsi su:

  • Assenza di motivazione oggettiva: se il demansionamento è arbitrario e non sorretto da reali esigenze organizzative o produttive;
  • Mancato rispetto dei limiti di categoria: la nuova posizione deve comunque ricadere nella stessa categoria legale di appartenenza. Ad esempio, un quadro non può essere destinato a funzioni da impiegato o operaio;
  • Elemento discriminatorio: se la proposta cela intenti persecutori, discriminatori o costituisce una forma di mobbing;
  • Violazione di diritti costituzionali: quando l'assegnazione a mansioni inferiori comporta un serio danno alla dignità e alla professionalità, soprattutto in caso di professioni altamente qualificate e regolamentate (es. infermieri, avvocati, architetti);
  • Mancato rispetto delle procedure previste dal CCNL di riferimento.
Sono invece considerate non sufficienti per opporsi ragioni di semplice preferenza personale, disagio legato al ridotto status o diminuzione della retribuzione se l'alternativa concreta sarebbe la perdita dell'impiego.

La giurisprudenza ritiene che il lavoratore possa rifiutare solo se l'atto è illecito e grave: ad esempio, laddove il demansionamento abbia impatti irreversibili sulla formazione, sull'aggiornamento, o renda impossibile lo svolgimento futuro della propria professione specialistica.

Nelle situazioni ordinarie, invece, la scelta di non accettare un ruolo ridotto espone il dipendente al rischio di perdere il posto per giustificato motivo oggettivo, a meno che non emergano profili di abuso, discriminazione o violazioni di legge.

Demansionamento e categorie legali: limiti e tutele previsti dalla legge

Un passaggio essenziale riguarda il rispetto delle categorie legali di inquadramento, disciplinate dall'art. 2103 c.c. e dai contratti collettivi. Per garantire un corretto bilanciamento tra esigenze datoriali e tutele del lavoratore, valgono regole precise:

  • La nuova mansione offerta deve mantenersi all'interno della medesima categoria legale (operaio, impiegato, quadro, dirigente);
  • Impossibile proporre un abbassamento «trasversale» che comporti la perdita della qualifica giuridica, nonostante la stessa azienda;
  • Il rispetto di questa soglia protegge il lavoratore da soluzioni umilianti o strumentali;
  • Nelle proposte di livello inferiore, vanno comunque mantenute condizioni di lavoro dignitose e coerenti con il bagaglio professionale posseduto dal dipendente.
La Corte di Cassazione si è più volte espressa su tale aspetto, stabilendo che solo un demansionamento forzato in un diverso ambito giuridico può essere oggetto di legittima opposizione con conseguente invalidazione del licenziamento. La corretta classificazione della posizione resta un cardine della tutela lavorativa contro gli abusi.

Conseguenze del rifiuto: licenziamento disciplinare o per giustificato motivo oggettivo

Quando il lavoratore oppone un rifiuto ingiustificato a mansioni inferiori offerte per evitare il recesso, l'azienda può avviare la cessazione del rapporto in modo legittimo. Le conseguenze cambiano in base alla natura e motivazioni del rifiuto:

  • Se l'offerta era motivata da ragioni organizzative o crisi aziendale, e coinvolgeva mansioni nella stessa categoria legale, il licenziamento potrà avvenire per giustificato motivo oggettivo (GMO). Tale licenziamento è basato su esigenze produttive e rispetta le regole della repêchage;
  • Nel caso invece di rifiuto reiterato e immotivato a svolgere mansioni pur differenti, ma rientranti nella qualifica, la giurisprudenza considera anche la strada del licenziamento disciplinare, per insubordinazione;
  • La differenza tra i due casi incide sulle tutele e sulle indennità conseguibili: nel GMO il rapporto termina per esigenze aziendali, mentre il licenziamento disciplinare coinvolge responsabilità soggettive con rischi specifici anche sul piano reputazionale.
Il lavoratore, una volta receduto, potrà accedere all'indennità di fine rapporto e – nei casi di GMO – anche agli ammortizzatori sociali come la disoccupazione ordinaria (NASpI), se in possesso dei requisiti.

Le situazioni reali presentano sfumature e richiedono valutazioni attente per ogni singolo caso. Alcuni esempi sono:

  • Un impiegato amministrativo potrebbe essere ricollocato nell'area di data entry: la scelta è lecita purché non cambi la fascia impiegatizia. In questo caso, il lavoratore difficilmente potrà opporsi senza rischiare il licenziamento;
  • Un quadro incaricato di funzioni gestionali che si vede offrire un posto generico da impiegato: opporsi è legittimo, se la proposta configuri un passaggio tra categorie legali differenti;
  • Le professioni regolamentate (es. infermieri) prevedono margini di tutela più ampi, se il rancato rischio di svilimento della professionalità è concreto e attuale.
La normativa impone per ogni nuova assegnazione un obbligo di formazione adeguata alle nuove mansioni. Se le nuove attività richiedono competenze diverse, il datore deve fornire strumenti e corsi, come disposto dalla legge e dai CCNL applicabili. In assenza di formazione o in caso di compiti incompatibili con la formazione, l'atto può essere contestato.

Il lavoratore danneggiato da un prolungato demansionamento può chiedere il risarcimento per la perdita di chance professionali o per danno da svilimento della carriera, ma la prova spetta a chi agisce in giudizio.