Il limite tra prestazione lavorativa lecita e carico eccessivo non è sempre tracciabile con chiarezza, ma esiste e trova fondamento giuridico nell'articolo 2087 del Codice Civile. La norma impone al datore di lavoro l'obbligo di tutelare l'integrità fisica e la personalità del dipendente così da garantire un ambiente professionale salubre e organizzato in modo da evitare sovraccarichi psico-fisici. Non si tratta di un dovere generico o astratto, ma di una responsabilità concreta che si estende anche alla quantità di lavoro assegnata e alle condizioni operative quotidiane. Quando i carichi diventano sproporzionati, ripetitivi, ingestibili o insostenibili nel lungo periodo, e soprattutto se queste circostanze producono danni fisici o psichici, si configura una violazione dell'obbligo di sicurezza da parte del datore di lavoro. La soglia oltre la quale la pressione professionale diventa dannosa è valutata in base a criteri oggettivi e soggettivi, considerando non solo le mansioni richieste, ma anche l'effettivo stato di salute del lavoratore, la durata del carico e l'impossibilità concreta di farvi fronte senza conseguenze dannose.
Una ordinanza della Corte di Cassazione (la numero 6008 del 2023) ha stabilito che il datore è responsabile dei danni patiti da un medico ospedaliero colpito da infarto, dovuto a turni eccessivi e privi di pause adeguate. In questo caso, la Suprema Corte ha ritenuto che la struttura sanitaria avrebbe dovuto organizzare le turnazioni in modo differente o dotarsi di personale temporaneo per evitare l'aggravamento dello stress lavorativo. Il messaggio è chiaro: la salute viene prima dell'equilibrio contabile o gestionale.
La prova del danno e l'onere probatorio a carico del lavoratore
Tipologie di risarcimento e criteri per la quantificazione del danno
Affinché un lavoratore possa ottenere un risarcimento per danni da sovraccarico lavorativi è necessario che riesca a dimostrare l'esistenza di tre elementi: il danno subito, l'ambiente nocivo e il nesso causale tra i due. Il danno può manifestarsi in diverse forme: fisica, come nel caso di infarti, malattie cardiovascolari, ipertensione, problemi muscolo-scheletrici; oppure psichica, come ansia cronica, disturbi depressivi, sindrome da burnout. È importante che il danno sia certificato da documentazione medica, diagnosi specialistiche o relazioni psicologiche. Il lavoratore deve poi dimostrare che il proprio ambiente lavorativo era dannoso ossia organizzato in modo da determinare, per la quantità di attività, per i ritmi imposti, o per la mancanza di pause e turni adeguati, una condizione di stress lavorativo prolungato.
La giurisprudenza ritiene sufficiente la dimostrazione di una condizione lavorativa nociva, senza la necessità di provare un intento doloso o colposo del datore. Una volta raggiunta questa soglia probatoria si attiva un'inversione dell'onere della prova: sarà infatti l'azienda a dover dimostrare di aver fatto tutto il possibile per prevenire il danno. Comprende l'organizzazione del personale, l'assegnazione delle mansioni, l'adozione di misure per favorire il recupero psicofisico e la disponibilità di risorse. Le sentenze hanno stabilito che la carenza di organico non costituisce una giustificazione valida per la violazione dell'articolo 2087. In altri termini, il profitto aziendale non può andare a scapito della salute dei lavoratori, neppure in condizioni straordinarie.
Quando il giudice accerta che c'è stato un danno alla salute riconducibile all'eccessivo carico di lavoro, può condannare l'azienda al risarcimento economico del lavoratore. Le voci che compongono il danno risarcibile sono molteplici e vengono valutate caso per caso. La prima e più rilevante è quella del danno biologico, ossia la lesione permanente o temporanea dell'integrità psico-fisica, certificata da una perizia medica. A questa può sommarsi il danno morale, che riguarda il turbamento interiore e la sofferenza soggettiva connessa all'esperienza traumatica vissuta in ambito lavorativo. In alcuni casi è riconosciuto anche il danno esistenziale, che si verifica quando l'attività lavorativa compromette le relazioni sociali, la vita familiare o la possibilità di coltivare interessi personali, privando il soggetto della propria normalità quotidiana.
La quantificazione del danno si basa su criteri tabellari, ma anche su una valutazione equitativa da parte del giudice, che tiene conto della gravità della condizione, della durata del periodo patologico, del grado di responsabilità dell'azienda e del tipo di mansione svolta. Nei casi più gravi, dove il lavoratore è stato costretto a un periodo di assenza prolungata o a una riabilitazione psichiatrica, i risarcimenti possono superare anche decine di migliaia di euro. Alcuni tribunali, in presenza di documentazione clinica estesa, hanno riconosciuto importi superiori ai 50.000 euro, soprattutto quando è stata provata l'incapacità temporanea o definitiva di svolgere l'attività professionale precedente.