Nel sistema del lavoro italiano l’accesso alla pensione di vecchiaia segna un punto di svolta sia per dipendenti che per datori di lavoro. Non si tratta solo di una fase di transizione personale, ma anche di un momento in cui cambiano profondamente i diritti e le garanzie del lavoratore.
Le regole che disciplinano la cessazione del rapporto di lavoro, il licenziamento per età pensionabile e gli eventuali prolungamenti lavorativi sono il risultato di un complesso intreccio di normative, anche previdenziali. In quest’ottica, l’equilibrio tra le esigenze aziendali e la protezione delle persone vicine alla pensione è costantemente oggetto di aggiornamento e discussione a livello legislativo e giurisprudenziale.
Per comprendere quando un rapporto può essere legittimamente concluso per raggiunti limiti di età è necessario analizzare i criteri anagrafici e contributivi stabiliti dal sistema previdenziale italiano. Per la pensione di vecchiaia, il requisito anagrafico è pari a 67 anni a cui si aggiunge il requisito contributivo di almeno 20 anni di contributi.
Esistono deroghe e finestre particolari, come la cosiddetta “deroga Amato” (15 anni di contributi) o la pensione anticipata ordinaria, accessibile indipendentemente dall’anagrafe con almeno 41 anni e 10 mesi di contributi per le donne e 42 anni e 10 mesi per gli uomini.
È possibile anche la pensione anticipata contributiva, prevista con almeno 64 anni e soglia minima dell’assegno, ma con almeno 20 anni di contributi (25 anni dal 2025 se si utilizza la rendita di un fondo pensione).
Il raggiungimento dei requisiti pensionistici consente al datore di interrompere il rapporto di lavoro con la cosiddetta causa del "raggiungimento limiti di età", ricorrendo al licenziamento senza obbligo di motivazione specifica.
Ciò significa che un datore di lavoro può licenziare un dipendente privato senza un motivo specifico una volta che questi ha raggiunto i requisiti di 67 anni di età e i contributi necessarie per la pensione di vecchiaia. Questo tipo di licenziamento è detto "ad nutum" (ad arbitrio) e non richiede le giustificazioni tipiche del licenziamento per motivi oggettivi o soggettivi.
Tuttavia, se il lavoratore esprime il desiderio di continuare a lavorare prima dei 67 anni e l'azienda acconsente, il rapporto di lavoro continua e la facoltà di licenziamento senza giusta causa si estende fino ai 70 anni.
Tuttavia, questa facoltà non è accompagnata da una cessazione automatica del rapporto: è necessario un atto formale che sancisca la volontà del datore.
Un aspetto centrale riguarda la tempistica: il lavoratore deve aver maturato i diritti pensionistici nel giorno esatto in cui riceve la comunicazione di licenziamento. Una lettera inviata anche solo un giorno prima sarebbe inefficace, anche se il preavviso decorre successivamente.
L’ordinamento prevede, inoltre, che, in presenza di determinati contratti collettivi o settori lavorativi, si applichino regole peculiari che regolano la transizione, ma in assenza di disposizioni più favorevoli l’azienda può esercitare la facoltà di licenziamento una volta maturata l’età pensionabile e soddisfatto il connesso requisito contributivo.
La Corte di Cassazione ha ribadito che non si tratta di una condotta discriminatoria, ma di un legittimo esercizio di un diritto riconosciuto dalla legge.
Dopo il raggiungimento degli ordinari requisiti pensionistici, il datore ha la cosiddetta facoltà di "recesso ad nutum", cioè la possibilità di interrompere il rapporto senza fornire una giustificazione.
Tuttavia, questa possibilità non comporta una totale assenza di regole: occorre una manifestazione formale della volontà di licenziare e il rispetto dell’obbligo di preavviso, previsto dalla legge e dai contratti collettivi.
Il licenziamento unilaterale non equivale a una destituzione arbitraria: il lavoratore conserva il diritto a ricevere la liquidazione e le indennità maturate. Non si può ricorrere al recesso ad nutum prima che i requisiti pensionistici siano maturati effettivamente dal dipendente.
Dopo il compimento dell’età ordinaria pensionabile, il rapporto di lavoro può proseguire anche oltre, ma solo se vi è una volontà condivisa tra azienda e lavoratore. Il consenso può essere espresso formalmente tramite un accordo scritto o tacitamente attraverso fatti concludenti, come la prosecuzione dell’attività lavorativa e la regolare retribuzione dopo il raggiungimento dei limiti di età.
Non sussiste, tuttavia, alcun diritto a mantenere il proprio impiego contro la volontà del datore di lavoro: la permanenza oltre i 67 anni è una facoltà e non un obbligo per le parti e non può trasformarsi in una pretesa automatica da parte del lavoratore.
Il continuare a lavorare dopo la pensione ordinaria può risultare vantaggioso sia per chi desidera aumentare la futura rendita previdenziale attraverso la maturazione di ulteriori contributi, sia per le aziende, che possono trattenere risorse ancora preziose.
L’estensione della tutela rispetto al licenziamento "ad nutum" può essere riconosciuta fino al compimento dei 70 anni d’età, ma con modalità differenti a seconda delle dimensioni del datore di lavoro.
Nelle aziende con più di 15 dipendenti, la prosecuzione del rapporto con consenso comporta che il licenziamento debba essere giustificato da una specifica motivazione, almeno fino ai 70 anni.
Per le aziende medio-grandi, il dipendente trattenuto dopo la maturazione dei requisiti, può contare su una tutela rafforzata e non potrà essere allontanato senza giusta causa o motivo oggettivo.
Per le imprese fino a 15 lavoratori la tutela reale non opera: il datore, una volta maturata da parte del dipendente l’età pensionabile, resta libero di recedere dal rapporto anche senza motivazione, a prescindere dal consenso alla prosecuzione lavorativa.
Nel tempo, la normativa e la giurisprudenza hanno eliminato ogni differenziazione sulle soglie di durata del rapporto di lavoro tra uomini e donne.
Le stesse tutele vengono quindi garantite a tutti, senza distinzioni di sesso, e le lavoratrici hanno diritto di rimanere in servizio fino all’età massima applicabile secondo la legge.