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Pensioni, sempre più un miraggio. Entro il 2030 si dovranno versare 128mila euro in più di contributi rispetto ora

di Marianna Quatraro pubblicato il
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Per la Cgil la soglia necessaria per accedere alla pensione anticipata salirà troppo fino al 2030 rendendo l’uscita prima della vecchiaia un vero e proprio miraggio

Negli ultimi anni, l’accesso alla pensione anticipata in Italia si è progressivamente allontanato per molti lavoratori, a causa di soglie sempre più elevate richieste dalla normativa vigente. L’analisi degli esperti della CGIL evidenzia come, entro la fine del decennio, l’obiettivo di un ritiro dal lavoro prima della vecchiaia rischia di trasformarsi in un’ipotesi difficilmente realizzabile per una fetta crescente della popolazione attiva.

Evoluzione degli importi minimi per la pensione anticipata dal 2022 al 2030

Analizzando gli importi minimi richiesti per il pensionamento anticipato, si osserva un’evoluzione significativa dal 2022 in avanti: la soglia economica, che determina la possibilità di lasciare il lavoro prima della pensione di vecchiaia, si è progressivamente alzata secondo i parametri fissati dal Governo e in parte anche in risposta al tasso di inflazione. Entrando più nel dettaglio:

  • Nel 2022 la soglia minima era fissata a 2,8 volte l’assegno sociale, pari a circa 1.309 euro lordi mensili.
  • Nel 2024 la soglia è salita a 3 volte l’assegno sociale, ovvero circa 1.616 euro al mese.
  • Entro il 2030, secondo proiezioni CGIL, la soglia sarà ulteriormente innalzata fino a 3,2 volte l’assegno sociale, che corrisponderà a circa 1.811 euro mensili lordi.
Anno Soglia (volte l'assegno sociale) Importo lordo minimo
2022 2,8x 1.309 €
2024 3x 1.616 €
2030 3,2x 1.811 €

Lo studio Cgil: aumenti contributivi necessari e impatto sulle retribuzioni

Uno degli aspetti più rilevanti emersi dallo studio Cgil, riguarda l’aumento del montante contributivo richiesto entro il 2030. Confrontando i dati del 2022 e le proiezioni per il 2030, la cifra risulta evidente: ai lavoratori verrà richiesto di versare una quota supplementare di circa 128.354 euro di contributi, per poter accedere al pensionamento anticipato secondo le nuove soglie.

Questo incremento è determinato sia dall’innalzamento del parametro relativo all’assegno sociale, sia dall’adeguamento all’inflazione. Per raggiungere tale traguardo, occorrerebbe una base retributiva complessiva di circa 388.953 euro maturata nel corso dell’intera vita lavorativa, una condizione che la CGIL stessa definisce quasi irraggiungibile per la maggior parte dei lavoratori dipendenti con stipendi bassi o medi.

Le simulazioni proposte dall’Ufficio politiche previdenziali della CGIL mostrano che:

  • Un lavoratore con una retribuzione media annua di 8.000 euro otterrebbe una pensione stimata, dopo 40 anni di contributi, di appena 505 euro mensili.
  • Con uno stipendio di 20.000 euro annui per 40 anni, si raggiungerebbe comunque solo 1.263 euro al mese.
  • Chi percepisce la retribuzione media del settore privato, circa 23.700 euro annui, dopo 40 anni arriverebbe a una pensione di circa 1.496 euro, ancora sotto la soglia prevista per il 2030.

L’ipotesi di utilizzo del TFR: analisi critica e prospettive future

L’attuale dibattito previdenziale italiano pone al centro l’ipotesi di consentire l’uso del Trattamento di Fine Rapporto (TFR) accumulato dai lavoratori per integrare il montante contributivo ai fini dell’accesso anticipato alla pensione. Tuttavia, secondo il parere della CGIL, questa soluzione appare poco efficace e rischia di compromettere ulteriormente i diritti dei lavoratori.

Tuttavia, se, secondo le stime, nel 2030 la soglia per l’uscita a 64 anni raggiungerà 1.811,78 euro, cioè +502,36 euro rispetto al 2022, renderà impossibile la pensione anticipata alla maggior parte dei lavoratori italiani.

Secondo i calcoli, infatti, con retribuzioni medie o basse la soglia non è raggiungibile nemmeno dopo 40 anni di contributi e neppure con l’uso del Tfr. Solo un montante contributivo aggiuntivo di oltre 128.000 euro, praticamente impossibile per chi ha carriere discontinue e salari medi o bassi, che richiederebbe una retribuzione aggiuntiva di 388.953 euro al 2030, potrebbe aiutare.

Il TFR rappresenta una parte integrante del salario, destinato a tutelare il lavoratore nel momento della cessazione del rapporto di lavoro. Utilizzarlo per colmare i requisiti pensionistici equivarrebbe, sostengono le analisi sindacali, a “intaccare diritti certi”, trasferendo di fatto l’onere di una previdenza pubblica strutturale sulle spalle degli individui. 

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