Negli ultimi anni, le politiche di sostegno alla genitorialità in Italia hanno assunto un ruolo sempre più centrale nel dibattito pubblico, specie in relazione alle misure economiche destinate alle famiglie numerose.
Tra queste, il contributo destinato alle madri impiegate rappresenta una risposta alle crescenti difficoltà legate al bilanciamento tra crescita familiare e permanenza nel mondo del lavoro. Il contesto, tuttavia, solleva questioni rilevanti sul fronte dell’uguaglianza di genere e della non discriminazione, in particolare quando i benefici sono previsti in modo esclusivo per una sola categoria di genitori.
Il tema si intreccia con il rispetto delle direttive comunitarie sul principio di parità fra uomini e donne, aprendo il terreno a potenziali contenziosi e richieste di revisione normativa in nome della pari dignità genitoriale.
Normativa italiana: requisiti e limiti del bonus mamme lavoratrici
Il bonus mamme lavoratrici viene riconosciuto sotto forma di contributo mensile di 40 euro per ciascun mese di attività, destinato esclusivamente alle madri con almeno due figli titolari di un rapporto lavorativo o di un’attività autonoma, a condizione che il reddito annuale non superi i 40.000 euro.
La normativa ha stabilito che:
- Possono accedere: lavoratrici dipendenti (escluse le lavoratrici domestiche) e autonome, incluse iscritte alle Casse professionali o alla Gestione separata
- Durata: il periodo ammissibile varia in relazione all’età del figlio più piccolo e al numero totale di figli
- Pagamento: avviene in unica soluzione entro la fine dell’anno di riferimento.
Pur rappresentando uno
strumento di sostegno diretto alla maternità tramite accredito monetario, la misura rivela limiti:
- Esclusione totale dei padri lavoratori, anche in presenza di figli a carico
- Assenza di cumulabilità in circostanze particolari (es. contatti misti, cambi di regime).
Questi profili suscitano dubbi sulla
piena equità della misura alla luce dei principi di diritto nazionale ed europeo.
Padri lavoratori esclusi: una violazione della direttiva europea sulla parità di genere?
Il mancato riconoscimento di una misura economica analoga anche ai padri che lavorano introduce una evidente sperequazione che si riflette sulle opportunità paritarie tra uomini e donne nella tutela del benessere dei figli e nel diritto al lavoro. La direttiva 2019/1158/UE ribadisce, infatti, come il diritto a misure di equilibrio tra attività professionale e vita privata debba risultare accessibile a entrambi i genitori, a prescindere dal genere.
Da un lato, la normativa nazionale garantisce congedi paritari obbligatori e parentali sia per le madri che per i padri, ponendo attenzione particolare alla non discriminazione e alla valorizzazione della responsabilità genitoriale condivisa.
Dall’altro, l'esonero contributivo riservato alla madre rischia di apparire non conforme alle previsioni comunitarie. Tale scelta non appare giustificabile dal punto di vista delle esigenze di tutela del minore, in quanto non tiene conto del crescente numero di situazioni familiari in cui la figura paterna svolge un ruolo attivo e insostituibile nella gestione e cura dei figli. Dunque:
- Esiste un pregiudizio verso i padri che, indipendentemente dalla composizione familiare o dallo stato civile, si trovano di fatto esclusi da un beneficio sociale per una mera ragione di genere;
- La direttiva UE richiama i Paesi membri a garantire piena parità di trattamento nella concessione di incentivi connessi alla cura dei figli e all’equilibrio lavoro-famiglia;
- Un’esclusione priva di solide motivazioni sostanziali risulta quindi potenzialmente in contrasto con le normative europee, come sottolineato da giurisprudenza e dottrina.
La posizione della Corte di Giustizia UE: no alla discriminazione tra madri e padri
Gli orientamenti espressi dalla
Corte di Giustizia dell’Unione europea risultano chiari nel vietare qualsiasi disparità di trattamento legata al sesso nei sistemi di fiscalità contributiva e di sostegno alla genitorialità. Pronunce in materia di tutela delle donne, dei padri lavoratori e delle famiglie omogenitoriali hanno sistematicamente ribadito che
il principio di parità va garantito sia nella partecipazione al lavoro sia nell’accesso alle prestazioni sociali.
Significativa è la chiara posizione che:
- Obbliga gli Stati membri ad assicurare che nessun beneficio diretto alla genitorialità possa essere riservato esclusivamente a uno dei due sessi se entrambi sono soggetti ai medesimi obblighi contributivi.
- Richiama il principio di equivalenza degli apporti genitoriali nella formazione del minore.
- Riconosce la necessità di adattare le tutele laddove evolvano i modelli sociali e i rapporti familiari, includendo anche le famiglie omogenitoriali.
Da questo punto di vista, la restrizione del contributo solo alle madri rischia di incorrere in una
violazione diretta delle direttive e della giurisprudenza UE sulla non discriminazione. La Corte stessa, con sentenze di rilievo, ha riconosciuto il diritto della madre intenzionale all’indennità prevista per il padre, laddove il quadro familiare lo richieda, consolidando così il principio secondo cui il trattamento deve essere uniformemente garantito a prescindere dal sesso del genitore.
Il principio della parità contributiva e i precedenti normativi europei
L’obbligo di garantire parità di trattamento fra lavoratori e lavoratrici nella corresponsione di benefit e agevolazioni sociali non nasce solo dalle più recenti direttive, ma affonda le sue radici nei trattati istitutivi dell’Unione e nelle storiche sentenze della Corte di Giustizia. Sin dagli anni ’70, la giurisprudenza unionale ha stabilito che:
- Se uomini e donne contribuiscono in misura uguale ai regimi assicurativi e previdenziali, devono essere destinatari di medesimi diritti e prestazioni.
- Qualunque norma nazionale che preveda vantaggi riservati in via esclusiva a uno solo dei due sessi viola il principio cardine della parità di trattamento garantita dagli artt. 157 TFUE e successive direttive attuative.
Possibili ricorsi e profili di illegittimità: quali tutele per i padri lavoratori?
Alla luce delle considerazioni sviluppate,
la misura così come oggi regolata è suscettibile di essere oggetto di ricorsi individuali e collettivi. I lavoratori padri esclusi possono contestare l’illegittimità della norma per violazione della parità tra i sessi sancita dall’Unione europea e dalla Costituzione italiana.
Le principali strade di tutela sono:
- Ricorso amministrativo e giudiziario contro il diniego del beneficio economico, sollevando la questione di legittimità costituzionale e comunitaria
- Segnalazione alle autorità garanti per la parità e la non discriminazione
- Richiesta di intervento alle Corti nazionali e sovranazionali affinché sia riconosciuto il diritto in ragione della contribuzione effettiva e del ruolo nella cura familiare
La giurisprudenza europea potrebbe sollecitare una
modifica della disciplina vigente e spingere verso una rapida estensione del beneficio anche ai padri, prevenendo così la violazione dei principi alla base del sistema europeo di protezione sociale.