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Chi ha versato più contributi, ha perso migliaia di euro di pensione negli ultimi anni per mancata rivalutazione. Ecco quanto

di Marianna Quatraro pubblicato il
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La perdita legata alla mancata rivalutazione delle pensioni si aggira tra i 13 mila euro e i 115 mila euro: chi ha subito e subirà gli effetti peggiori

Negli ultimi decenni, la rivalutazione delle prestazioni pensionistiche è diventata uno dei temi più dibattuti nel panorama previdenziale italiano. La mancata piena indicizzazione delle pensioni rispetto all'inflazione ha determinato una perdita rilevante per molti beneficiari, in particolare per chi ha contribuito maggiormente al sistema. L’adeguamento parziale, insieme ai continui cambiamenti normativi, ha inciso profondamente sul potere d’acquisto dei trattamenti.

Il meccanismo della rivalutazione delle pensioni in Italia

In Italia, il principio della perequazione automatica garantisce l'adeguamento degli assegni pensionistici al costo della vita, contrastando l'erosione provocata dall’inflazione. Istituito per conservare la stabilità delle condizioni economiche dei pensionati, questo meccanismo è stato oggetto negli anni di continue revisioni, sospensioni e riforme, spesso motivate da esigenze di contenimento della spesa pubblica più che da valutazioni previdenziali eque.

Dal 1996, la normativa ha previsto sistemi a scaglioni o fasce, mutando sia la percentuale di rivalutazione, sia i criteri di applicazione. La quota più significativa delle pensioni ha goduto di una perequazione piena solo fino a determinati limiti, con restrizioni crescenti per i trattamenti superiori. Le principali tappe evolutive possono essere così sintetizzate:

  • 1996-2008: Rivalutazione a scaglioni, dal 100% per le pensioni più basse fino a percentuali decrescenti per gli assegni più elevati. In alcuni anni, totale assenza di perequazione per gli importi oltre un certo multiplo del trattamento minimo INPS.
  • 2012-2015: Introduzione di blocchi temporanei e forti limitazioni che hanno colpito soprattutto gli importi oltre 3-6 volte il minimo, con effetti di lunga durata dovuti all’impossibilità di recuperare quanto perso negli anni di blocco.
  • Dal 2019: Passaggio ai meccanismi a fasce, con percentuali di rivalutazione sempre più basse per le pensioni più alte e criteri che variano quasi annualmente in base alle leggi di bilancio.
In parallelo, i trattamenti minimi e quelli sociali sono stati salvaguardati, mentre le pensioni medio-alte e alte hanno subìto la progressiva erosione del valore reale degli assegni. 

Come funziona la rivalutazione oggi: fasce, percentuali e differenze per importo

L’attuale sistema di rivalutazione delle pensioni si basa su percentuali differenziate a seconda dell’importo dell'assegno, calcolate riferendosi al cosiddetto trattamento minimo INPS (per il 2025, pari a circa 598,61 euro al mese). L’adeguamento annuale, fissato secondo i dati ISTAT sull’inflazione, viene applicato secondo questo schema:

Importo pensione % rivalutazione inflazione
Fino a 4 volte il minimo 100%
Tra 4 e 5 volte il minimo 90%
Oltre 5 volte il minimo 75%
   

L’applicazione non avviene per scaglioni ma sulla totalità dell’importo pensionistico, riducendo in misura crescente la percentuale effettiva di rivalutazione per ogni fascia superiore. Per le fasce più basse (minimi e assegni sociali), sono previste occasionalmente maggiorazioni straordinarie.

Chi ha subito le maggiori perdite: analisi dei pensionati maggiormente penalizzati

L’impatto della mancata rivalutazione, secondo gli studi condotti da Itinerari Previdenziali e CIDA, con le maggiori penalizzazioni si è fatto sentire soprattutto per:

  • Pensionati con assegni lordi oltre 2.500 euro mensili (poco meno di 2.000 euro netti), che rappresentano circa il 21,9% del totale nazionale
  • Coloro che hanno versato il maggior numero di contributi e imposte sul reddito da lavoro, quindi prevalentemente ex dipendenti pubblici, manager, quadri e lavoratori con carriere lunghe e retribuite
  • Chi percepisce trattamenti superiori a 10 volte il trattamento minimo INPS: in assenza di piena rivalutazione, questi importi sono stati i più puniti dagli ultimi cicli normativi e inflattivi
Ciò che, dunque, emerge è che più alta la pensione, più ampia la quota di inflazione non recuperata. Secondo gli analisti, questa situazione penalizza particolarmente 1,8 milioni di pensionati, responsabili del 46,33% delle entrate IRPEF di tutto il comparto, ma che subiscono le maggiori decurtazioni in termini assoluti e relativi.

Quanto si è perso in termini economici: dati, esempi e proiezioni

Secondo i dati forniti da Itinerari Previdenziali e CIDA, negli ultimi 10-14 anni la perdita cumulata per la fascia delle pensioni medio-alte e alte ha raggiunto cifre considerevoli:

  • Per assegni sopra i 2.500 euro lordi: perdita tra 13.000 e 14.000 euro in 10 anni
  • Pensioni oltre 5.500 euro lordi/mese: fino a 96.000 euro di mancata rivalutazione nello stesso periodo
  • Importi sopra 10.000 euro lordi/mese: perdita superiore a 178.000 euro in 14 anni (circa un anno intero di assegno non rivalutato)
Nel periodo 2012-2022, chi percepisce pensioni oltre le 10 volte il minimo ha visto svanire circa il 9% del valore rispetto all’inflazione cumulata, mentre le ulteriori limitazioni tra il 2023 e il 2025 hanno inciso per un ulteriore 12%, portando la svalutazione reale sopra il 21%.

La seguente tabella sintetizza le perdite economiche stimate nei casi paradigmatici, in assenza di piena rivalutazione:

Importo pensione mensile lordo Perdita in 10 anni Perdita in 14 anni
2.500 € 13.000 € circa 18.000 €
5.500 € 96.000 € oltre 130.000 €
10.000 € 115.000 € 178.000 €

Dunque, secondo lo studio di Itinerari Previdenziali, la perdita legata alla mancata rivalutazione sarebbe quantificabile nei prossimi 10 anni in almeno 13 mila euro; valore destinato a salire progressivamente fino ai 115 mila per i percettori di assegni oltre i 10 mila euro lordi (6.000 circa il netto).