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Il mancato rispetto del diritto al riposo settimanale, sebbene possa sembrare una questione di organizzazione interna alle aziende, assume, in realtà, particolare rilievo alla luce dei risvolti sulla salute del personale. La giurisprudenza ha ridefinito i confini temporali e sostanziali per far valere il diritto al risarcimento a causa di comportamenti aziendali lesivi che incidono proprio sul benessere e sulla dignità dei dipendenti.
In quest'ottica, la disciplina sulla prescrizione dei diritti risarcitori si arricchisce di regole particolari che mirano a garantire effettività e continuità delle protezioni, anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro, rafforzando così il valore costituzionale della salute e dell'integrità personale.
La sentenza 803/2025 della Corte d'Appello di Milano: contesto, fatti e principi giuridici
Il pronunciamento del giudice meneghino ha segnato una svolta nell'interpretazione della protezione dovuta ai dipendenti. La decisione origina dal caso di diversi lavoratori di una società ferroviaria, costretti a reperibilità nei weekend secondo un sistema di turnazione che spesso impediva il godimento delle 24 ore consecutive di riposo. Nonostante la previsione regolamentare di un orario settimanale su cinque giorni, la pratica aziendale obbligava a garantire la presenza anche nei fine settimana inviando i lavoratori oltre i limiti stabiliti dalle normative nazionali e comunitarie.
I dipendenti hanno agito giudizialmente per vedere riconosciuta non solo la violazione contrattuale e sindacale, ma anche il diritto a un risarcimento per i danni di natura non patrimoniale collegati allo stress e all'usura psicofisica.
L'azienda, dal canto suo, riteneva di aver agito legittimamente, valorizzando il pagamento delle indennità di reperibilità. Tuttavia il giudice ha riconosciuto che il diritto al ristoro economico per i danni subiti rimane un'esigenza imprescindibile, collegata al rispetto delle condizioni minime di tutela della salute:
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La sentenza ribadisce che il diritto al risarcimento non si prescrive durante la vigenza del contratto, ma soltanto a partire dalla sua cessazione.
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Il pronunciato si basa sulla persistente attualità dei rischi di ritorsione e sulla necessità di tutelare il lavoratore anche durante la durata del rapporto.
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È centrale il riconoscimento del danno esistenziale e morale, oltre che materiale.
Come funziona la prescrizione nei diritti risarcitori da rapporti di lavoro
Il tema della prescrizione del diritto al risarcimento in ambito lavorativo è oggetto di una continua evoluzione, sia sotto il profilo normativo che giurisprudenziale. Secondo l'orientamento consolidato, la durata della prescrizione dei diritti risarcitori - inclusi quelli connessi a comportamenti aziendali lesivi - non segue regole statiche, ma si modella sulle condizioni di stabilità e sulla posizione di soggezione del lavoratore:
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Storicamente, la Corte Costituzionale (sentenza n. 63/1966) aveva già affermato che, se il dipendente teme ritorsioni o licenziamento, la prescrizione non può correre durante lo svolgimento del rapporto.
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La riforma Fornero (legge 92/2012) e il Jobs Act hanno ridotto la stabilità del contratto a tempo indeterminato: questa circostanza ha reso necessario tutelare la posizione del lavoratore debole.
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Secondo la Cassazione (sentenza n. 26246/2022), la prescrizione decorre solo dalla cessazione del rapporto e la regola vale per tutti i diritti collegati, non solo per quelli di carattere retributivo ma anche risarcitorio.
I tribunali continuano a ritenere che la prescrizione sia congelata sino alla fine del rapporto, in modo che il lavoratore non sia costretto ad agire contro l'azienda mentre ne è ancora dipendente e vulnerabile. Una volta cessato il rapporto, il lavoratore dispone del pieno termine di legge per agire, generalmente cinque o dieci anni a seconda della natura del diritto.
Tale disciplina assicura che anche le pretese risarcitorie, soprattutto quelle nate da illeciti continuati, possano essere fatte valere senza l'ostacolo di termini inconsapevolmente decorsi per effetto di una subordinazione ancora in essere.
Il metus e la sospensione della prescrizione: tutela del lavoratore contro le ritorsioni
Elemento determinante nella disciplina del diritto al risarcimento anche dopo la fine del contratto è il concetto di metus, ossia il timore che dissuade i dipendenti dal rivendicare i propri diritti contro il datore di lavoro.
La giurisprudenza, sia costituzionale che di legittimità, ha riconosciuto che il metus produce un effetto sospensivo della prescrizione in favore del lavoratore, fino alla cessazione della posizione di dipendenza. Solo quando il rapporto lavorativo termina, cade anche la condizione di timore e il dipendente può agire liberamente in giudizio.
Questo approccio trova fondamento:
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nell'art. 36 della Costituzione, che tutela il diritto al riposo e a condizioni di lavoro salubri,
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nella Direttiva UE 99/70/CE sulla tutela dei lavoratori,
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negli articoli 2935 e seguenti del Codice Civile (decorrenza della prescrizione).
L'applicazione concreta del principio tutela non solo i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato ma, come confermano anche recenti sentenze della Suprema Corte, si estende a tutta la casistica dei rapporti in cui il prestatore si trovi in una posizione di potenziale soggezione psicologica e professionale, compreso il settore pubblico e i lavoratori precari interessati da reiterazione illecita dei contratti a termine.
Danni non patrimoniali da stress e burnout: dalla domanda risarcitoria alla quantificazione del danno
I danni non patrimoniali correlati a stress da lavoro, usura psicofisica e fenomeni di burnout sono, ormai, ampiamente riconosciuti nella giurisprudenza italiana. Tali lesioni, spesso insidiose e di difficile evidenza immediata, rappresentano un aspetto centrale delle controversie in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
Nel caso specifico esaminato dalla sentenza milanese, la richiesta di risarcimento ha avuto quale oggetto:
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l'accertamento giudiziale della violazione aziendale dei tempi di riposo settimanale,
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il riconoscimento del danno causato dall'illegalità della prassi organizzativa,
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la quantificazione del pregiudizio non solo sotto il profilo economico, ma soprattutto rispetto al danno alla salute e all'equilibrio personale.
La dimensione del danno non patrimoniale si traduce, in ambito lavoristico, nella tutela di valori come dignità e integrità psico-fisica. La quantificazione avviene secondo parametri equitativi, cui si aggiungono le specifiche risultanze mediche o psicologiche prodotte in giudizio.
La Cassazione ha più volte ribadito che il danno risarcibile comprende:
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l'usura psichica e fisica provocata da turni eccessivi,
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il rischio di burnout e le patologie collegate al mancato rispetto delle pause obbligatorie,
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la perdita di chance di una vita familiare e sociale equilibrata.
In sede di liquidazione, si applicano i criteri esposti dagli articoli 1218 e 1223 del Codice Civile, in modo da ricomprendere sia il danno emergente che il lucro cessante. All'occorrenza si utilizzano le tabelle elaborate dalla giurisprudenza in materia di danno alla salute, valutando il grado di invalidità e le conseguenze sulla qualità di vita del lavoratore.
Le ripercussioni pratiche della sentenza sul diritto alla salute e la durata del rapporto di lavoro
L'interpretazione fornita dal giudice meneghino genera importanti effetti anche sull'organizzazione delle aziende e sul modo in cui viene garantito il diritto alla salute dei lavoratori. La vigenza della sospensione della prescrizione comporta:
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un prolungamento dei tempi utili per la tutela, che può essere esercitata anche dopo anni dalla cessazione del rapporto,
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un rafforzamento del diritto alla difesa contro le prassi organizzative nocive,
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un aumento della responsabilità datoriale nell'adeguare la gestione del personale ai criteri di rispetto dei tempi di riposo e delle pause di recupero.
Gli effetti della sentenza 803/2025 non si limitano al comparto privato: anche le amministrazioni pubbliche e i rapporti di lavoro flessibili sono tenuti ad attuare politiche preventive e correttive, monitorando attivamente la qualità della vita lavorativa e predisponendo strumenti di ascolto e supporto per i dipendenti a rischio di stress lavoro-correlato.
La sentenza consolida, infine, la centralità del principio della preminenza della persona rispetto alle esigenze organizzative, riequilibrando il rapporto di forza all'interno della dinamica aziendale.